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Racconto Breve

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    Questo è il racconto che ho inviato al concorso Campiello Giovani. Spero lo gradiate. L'ho scritto gli ultimi due giorni, dannato me, quindi magari ci sono errori che mi sono scappati. Ecco, non fatemeli notare, sennò vado in paranoia :asd:


    SPOILER (click to view)
    La chiave girò a piccoli scatti nella serratura, producendo un clangore metallico che il legno pesante della porta rinforzata, per qualche strano gioco di propagazione, non faceva altro che amplificare, facendogli assumere un tono solo leggermente più ovattato. “Sono a casa”, diceva quel suono, annunciando il mio ingresso. Era un rumoraccio fastidioso, specialmente quando si doveva entrare a notte inoltrata, in punta di piedi, per non svegliare nessuno. Rimpiangevo la vecchia porta d’ingresso, quand’era uguale a tutte le altre del condominio. Era anonima, sì, ma era calda, familiare. Questa, di legno chiaro, pesante, chiassosa, dava l’idea di separare il corridoio da un bunker antiatomico. O quasi. La cambiammo dopo che l’appartamento fu visitato da una coppia di ladri, pochi mesi fa.
    “Sono a casa”, mi annunciò la porta, e la aprii quel tanto che bastava per far passare me e le borse della spesa che portavo, gonfie e tutt’altro che leggere.
    -Cazzo, ragazzi, non qui!
    Lo sapevano, lo sapevano che mi infastidiva (ed infastidisce) a morte che si mettano a fare le loro cose in salotto, sul divano dove anch’io mi sedevo, quando guardavo la TV o giocavo con la Playstation. Un giorno o l’altro,appena avessi avuto i soldi, mi sarei comprato una poltrona per me -questo, invece, lo ripetevo a me stesso- alla faccia loro. Loro, i quali se ne stavano l’una a cavalcioni dell’altro, sul divano, entrambi a torso nudo, pomiciando più appassionatamente del dovuto. Lo stavano facendo apposta, con più enfasi, per infastidirmi di più. Ogni tanto, si divertivano così, provocandomi. Appena comunicai il mio disappunto, lamentando qualche insulto a caso, ridacchiarono all’unisono, guardandosi fisso negli occhi. Nel giro di pochi secondi, presero a rivestirsi. L’avevano proprio fatto apposta, dannati.
    -Cos’hai lì dentro?- Mi chiede Giulia, i capelli rosso scuro arruffati, indicando le borse che ancora reggevo in mano, come un idiota.
    “Bambini, Giulia. Hai fatto tanto, tanto sesso con Alberto, quindi eccoti i vostri due gemellini. Congratulazioni, sei mamma!” Pensai.
    -Cibo, birra, carta igienica e un altro paio di cose per il bagno- risposi, invece.
    Alberto si alzò non appena l’altra scese dalle sue gambe. Non aveva ancora spiaccicato parola, ma aveva in faccia un’espressione ebete che avevamo, di comune accordo, associato all’espressione “Birraaaaa!”. Lo guardai fisso negli occhi, cercando di rimanere serio. Avevo deciso di fare l’imbronciato, anche se a poco sarebbe servito per dissuadere la coppia di miei coinquilini a scegliere altri posti per i loro umidi rituali.
    -Prenditele, vado di là a finire di studiare Analisi.- Replicai alla mimica facciale di Alberto (come la faceva lui, la faccia da idiota, non la faceva nessuno), e m’incamminai verso camera mia, l’unico luogo ancora immacolato dell’appartamento. Almeno, speravo fosse ancora immacolato.
    “Almeno uno, in questa casa, avrà qualcosa in più della licenza media”, mi ripeteva sempre il mio coinquilino. A dirla tutta, siamo amici d’infanzia, e ad essere ancor più sinceri, la licenza superiore ce l’ha pure lui. Abbiamo frequentato lo stesso liceo, e ci eravamo entrambi iscritti a medicina. Ovviamente, abbandonammo. Lui perché trovò Giulia, io per un miscuglio in parti diseguali di carenza di fondi, mancanza di risultati, scarsa voglia e vari altri piccoli motivi, e passai a Biotecnologie. In pratica, con quella affermazione non voleva far pesare all’amante il fatto che lei non avesse passato nemmeno la maturità. Probabilmente, poco gliene fregava all’altra che le si prestassero tali premure, ma Alberto aveva ancora una parte rimasta incorrotta da Giulia, una frazione d’animo ancora gentile e affettuoso. Flebile, quasi impercettibile, ma ancora esisteva. C’era ancora un po’ del mio compagno di giochi infantili in quel corpo. Abbozzai un debole sorriso, al portare la mente indietro, anche se di così pochi anni. Un sorriso debole, effimero, che sublimò non appena la porta (quella di camera mia, chiara, leggera, ben oliata, tutta un’altra storia rispetto a quella d’ingresso) fu nuovamente chiusa, alle mie spalle: la lampada da tavolo era stata lasciata accesa, come un riflettore da teatro proiettava una calda penombra sul palcoscenico della scrivania; dietro, i libri disposti ordinatamente negli scaffali facevano da sipario, mentre Analisi 1 si godeva il suo ruolo da protagonista, tronfio al centro della scena. Arraffai una matita dal coro di cancelleria ordinatamente riposto nel portapenne, per sfidare a singolar tenzone il mio avversario.
    Sentivo il tempo dilatarsi e comprimersi attorno a me facendo il rumore della neve che si impacca sotto il suo stesso peso. Qualsiasi cosa, appena distoglievo lo sguardo, rapiva la mia attenzione. Vedevo cose nuove, o cose vecchie che non avevo mai guardato, e altre cose ancora … Concentrazione!
    Studiare forzatamente mi causava sempre quell’effetto. Sostenevo di avere un disturbo della concentrazione, ma non mi sono mai rivolto ad un professionista. Probabilmente solo perchè non voglio sentirmi dire che no, non ho nulla che non va e perdere così ogni possibile scusa con cui giustificarmi con me stesso. Dopo quelle che parvero ore, avevo quasi finito di sfogliare il libro, ripassando a mente i vari teoremi e soffermandomi sulle dimostrazioni che non ricordavo o sui ragionamenti più intricati. Solo allora sentii Giulia urlare qualcosa che non capii, ma che suonava molto come un richiamo a tavola. Nei film americani di vecchia scuola si vedono le mamme che suonano un triangolo appeso in veranda per chiamare i bambini a cena (che, poi, mi sono sempre chiesto come facessero a sentirlo, a centinaia di piedi di distanza, correndo e urlando). Ecco, io avevo Giulia che urlava -con tono vagamente ed incoerentemente materno-, ed Alberto che giocava con i videogiochi tutto il giorno. Potrei considerarci la trasposizione in chiave moderna di quelle famiglie texane dei western in bianco e nero.
    Decisi di non farla aspettare: di consuetudine il volume della sua voce aumenta di richiamo in richiamo, e né io né il mio amico poltrone ci siamo mai azzardati a farla attendere più di tre urla; nessuno di noi due desidera dipendere da un apparecchio acustico per almeno un’altra dozzina d’anni, il che sembra un’ardua impresa. Spensi la luce. Appena fuori dalla stanza buia, un flebile odore di cipolla mi stuzzica le narici. Storsi un po’ il naso, in un’espressione che non potevo far vedere a Giulia ma che nemmeno potevo trattenermi dal fare. Non sopporto l’odore di cipolla. Sapevo che, in ogni caso, Giulia sarebbe riuscita a farmelo apprezzare. Cucinava divinamente. Una qualsiasi delle nostre mamme avrebbe affermato “É da sposare!”. “Si, se non fosse libertina così fuor di misura”, sarebbe stata la risposta che non avrei mai detto.
    Giulia, dal canto suo, non si sarebbe offesa a sentirselo dire. Sapeva perfettamente qual’era il suo stile di vita, ed era perfettamente conscia di come la pensavano quella massa di persone che amabilmente definiva “bigotti moralisti”. Questi ultimi l’appellavano con numerosi epiteti diversi, ma che alla fine stavano a significare tutti la stessa cosa. Lei se n’è sempre fregata, tant’è che la gente ha perso gusto a chiamarla in quel modo, una volta svanito il gusto dello scandalo. Alla fine, tenuta da parte la sfera della sua vita sessuale, è una brava persona: sa sempre dare il giusto peso alle cose, e si comporta di conseguenza, non è mai troppo esuberante in compagnia , e mai troppo seria al lavoro. E cucina divinamente.
    Lanciai la matita che mi accorsi di tenere ancora in mano nel vuoto nero alle mie spalle, senza aspettare di sentirne il tonfo: prima di dare modo alla cuoca di mandare in frantumi la cristalleria (che non possedevamo) con un secondo acuto, avevo già le mani lavate e mi stavo accomodando a tavola. Alberto mi aveva anticipato, e già era arrivato a metà della sua seconda birra, da quando ero tornato. Io avevo ancora la mente riempita di funzioni e derivate, troppo piena per dare l’impressione di essere del tutto sereno riguardo all’esito dell’esame imminente. Ovviamente, entrambi se ne accorsero, ma adottarono una politica non interventista, con silenziosa complicità, lasciandomi cuocere nel mio brodo. Fra me e me, li ringraziai di cuore per questo. Sapevano che detestavo essere compatito e rassicurato con frasi di circostanza, per poi venir immancabilmente deluso poi. “Vada come vada”, pensai, “quel che importa ora, è il risotto”.
    Finito il secondo piatto, mi sentivo finalmente sazio. Nonostante la semplicità elementare della portata, era una cena da re. Infine, di malavoglia e con estremo disappunto da parte delle mie povere membra spossate, tornai ad auto-seviziarmi a suon di integrali, di là.
    Da quel momento in poi, non so con quanta velocità sia avvenuto tutto. Ma, forse, è del tutto irrilevante. Ricordo che andai a lavarmi le mani, e subito dopo in camera. Accesi la luce e rimasi immobile, stordito, con la bocca spalancata e gli occhi sgranati, come un cretino. Quanto vorrei aver avuto uno specchio! , devo aver avuto una faccia da immortalare. E chi non ce l’avrebbe avuta? Quello che i miei occhi vedevano, il cervello lo rifiutava categoricamente. A ragion veduta. Tutto ciò infrangeva almeno mezza decina delle leggi che avevo studiato nel corso di fisica di base. Non riuscivo a pensare nemmeno a quante e quali fossero le norme che catalogavano come materialmente impossibile il fatto che una matita fosse sospesa in aria, poco oltre la soglia, all’altezza del mio viso, ruotando su sé stessa ad una velocità talmente lenta da far venire i nervi. Balbettai, biascicai, rantolai, e produssi diversi altri suoni, sempre immobile al mio posto. Ma quando iniziò a dolermi la mascella, fui costretto ad ammettere che era passato fin troppo tempo per aspettare che l’oggettino concludesse il suo moto contro il pavimento. Ostinato, continuava a fissarmi, roteando elegantemente come un ballerino, lì, a più di un metro e mezzo dal suolo. Personalmente, non mi avrebbe infastidito aspettare i suoi comodi, e magari rimanere ancora un po’ a fissarlo come un uomo delle caverne che per la prima volta vede il fuoco. Esprimendomi allo stesso modo.
    Rumori molesti mandarono in frantumi il silenzio attonito che si era diffuso nella stanza. L’impulso di nascondere quella bizzarria allo sguardo dei miei due coinquilini vinse la prudenza, e con mezzo balzo afferrai il legno fra indice e medio, come avrei preso quella stessa matita raccogliendola dal suolo dove avrebbe dovuto essere, se ci fosse stata. I tonfi sordi dei corpi che sbattevano sui muri proseguirono oltre, verso l’altra camera. Immediatamente, chiusi a chiave la porta con la mano libera, e, più tranquillo, andai a sedere su un angolo del materasso ad esaminare la situazione con calma. Probabilmente la mia espressione, stavolta, non fu singolare come la prima. Eppure questo secondo fenomeno, lo era. Ma ormai la mia mente era già partita per la tangente, sforando il campo delle scienze per sconfinare in uno spazio irreale di seghe mentali. La matita, nei brevi momenti in cui non l’avevo tenuta sotto controllo, aveva deciso di cambiare colore: da nera e gialla che fu, era diventata bianca e viola. La punta di grafite era una sfumatura di grigio leggero. Quello stato cromatico durò ben meno della mia risposta di sorpresa. La matita tornò alla sua colorazione normale. Passò poco, e di nuovo mutò negli stessi colori di prima. E di nuovo normale. Nel palmo della mia mano, alternava queste trasformazioni ad intervalli irregolari, come la luce traballante dei neon nei film horror. Avevo la sensazione di tenere in mano uranio radioattivo, le punte delle dita tremavano, avevo la fronte imperlata di sudore, e la schiena e le ascelle madide. I nervi tesi, ad aspettare il prossimo comportamento inaspettato, sconosciuto, e quindi potenzialmente pericoloso della matita. La sua punta mi sembrò ancora più appuntita, in quel momento.
    Invece, smise.
    Come il flusso di eventi terminò, improvvisamente, mi sentii subito deluso. Poi infastidito. Alla fine, mi sorpresi a sbattere più volte la matita contro lo stipite, attendendo ogni volta qualche secondo, in silenzio, che succedesse qualcosa, qualsiasi cosa, anche solo che si spezzasse la punta. Non capivo, e volevo capire, e prima ancora di voler capire, volevo di nuovo essere partecipe di quei fenomeni, con una curiosità che ha ben poco di sano. Ero rimasto del tutto inappagato.
    Mi arresi, andai a lavarmi i denti ed a svuotare la vescica. Svogliato, iper-stimolato ma allo stesso tempo distratto, attribuii le chiazze strane che vedevo sulla mia pelle all’abbaglio delle lampadine ad incandescenza sopra lo specchio. Effettivamente, erano piuttosto un alone satinato che somigliava all’impronta che le luci intense imprimono sulla retina dopo che le si ha guardate per troppo tempo. Tant’è che non riuscivo a definirne la forma, e si spostavano coordinatamente al mio sguardo. Certo, avevo visto qualcosa, in camera mia, ma ora mi stavo suggestionando da me. Perché, in fondo volevo farlo. Ed ero stanco. Più stanco che dopo aver passato tutto quel tempo a studiare Analisi. Più stanco che dopo aver corso il test di Cooper, alle superiori.
    Chiusi la matita in un cassetto, per accertarmi che non tentasse d’infilzarmi nel sonno per vendicarsi dei maltrattamenti cui l’avevo sottoposta. Mi coricai vestito della sola biancheria, aspettandomi di impiegare secoli ad addormentarmi. Ero ancora eccitato, turbato, in preda ad un turbinio di emozioni già provate ma con intensità minori. Ero in brodo di giuggiole, cotto dalla stanchezza. Era uno scontro fra titani: da una parte la mia animosa, irrefrenabile, travolgente impulsività, dall’altra l’attanagliante stanchezza. Infine, la seconda ebbe la meglio, forte di un alleato formidabile: il torpore del piumone.
    Fu un sonno pesante, privo di sogni.

    Oggi, quel giorno sembra così remoto, come un ricordo che si fatica a descrivere, nebbioso. Ma, ponderandolo, ancora lo si riesce ad evocare abbastanza dettagliatamente.
    Era solo ieri, sempre che il tempo abbia ancora importanza.

    È stato il freddo, a svegliarmi, stamattina. Avevo i muscoli indolenziti, ed ero raggomitolato in posizione fetale, cercando di godere del mio stesso calore. Dovevo essere malato. “Allucinato ieri, oggi sudo freddo” mi dissi. Mi mentivo. Sudavo ghiacciato. Non tremavo, non ne avevo lo stimolo, eppure il freddo che provavo, raggomitolato sotto le coperte, sarebbe stato sufficiente a farmi battere i denti, in altre occasioni. Mi ci è voluto molto tempo (non so dire se secondi, minuti, od ore) per riuscire a radunare abbastanza coraggio per uscire dalle coperte per andare a riaccendere il riscaldamento. Non era ancora mattino, vedevo nero ovunque. Mi sono fermato un attimo, a riflettere. Vedevo. Fosse stata notte, non avrei visto nulla. Invece, percepivo le diverse gradazioni dell’oscurità, e i colori innaturali che questa conferiva alle mie cose, sparse per la stanza. Non me ne sono accorto subito, ma avevo smesso di sudare e provare freddo non appena mi ero liberato il busto dalla coperta. Ora percepivo una leggera sensazione di calore, di qualche sfumatura sopra al tiepido. Pertanto, non sono riuscito a rimanere agghiacciato come avrei dovuto, nel vedere che l’oscurità entrava dalla finestra. Se avessi dovuto immaginare la tenebra entrare in una stanza, le avrei dato tentacoli, sarebbe stata una viscosità strisciante e umidiccia. Invece, filtrava attraverso la tenda rosata, per invadere la stanza e finendo con l’attenuarsi verso gli angoli del soffitto e sotto la scrivania, dove varie sfumature di bianco distoglievano la mia attenzione. Allo stesso modo, la lampada sulla scrivania proiettava una sagoma di luce sul ripiano di legno. La stessa cosa facevano anche gli altri oggetti più piccoli. Ah, va bene, ho capito. “Le ombre sono luminose, mentre la luce è scura”, ho dedotto. Sono subito rimasto allibito dall’aberrazione appena pronunciata mentalmente, e che ancora echeggiava nella vuota gola fra i lobi del mio cervello.
    La cosa che mi è parsa più innaturale, è stata il non riuscire a percepire lo stravolgimento dell’ordine delle cose come tale. In pratica, sono rimasto sorpreso di non essere rimasto sorpreso. Come se avessi accettato il tutto ancora prima di venirne a conoscenza, o come se avessi conosciuto il colore reale delle cose da sempre nonostante l’avessi visto ieri per la prima volta.
    -É pronta la colazione, vieni a mangiare?
    Giulia mi stava fissando, appoggiata con una spalla ad uno stipite. La sua carnagione era di un bel verde scuro, la sua espressione sprizzava una preoccupazione talmente sincera e melensa da far venire le carie ai denti. Quella si, era una cosa di cui essere terrorizzati. Giulia premurosa. Che da qualche parte ci fosse qualcosa di sbagliato, era innegabile. Ma dall’avere il nero al posto del bianco al vedere quella precisa persona comportarsi in quel preciso modo, era un altro paio di maniche. Anche se, in ultima analisi, è esattamente la stessa cosa.
    -’Giorno- ho sentito sbadigliare Alberto mentre passava in corridoio, diretto in bagno.
    La sua pelle era dello stesso colore di quella di Giulia, forse leggermente più chiara. Passandole dietro le ha rivolto uno sguardo fugace. Tenero, e completamente privo di desiderio. La cosa mi ha dato il voltastomaco, anche se subito non ho capito il perché.
    -Non hai una bella cera, sicuro di star bene? Ti porto qualcosa? Non vorrai uscire in queste condizioni!
    Mentre lei continuava a blaterare premure amorevoli, io stavo ancora cercando un punto fisso con il quale orientarmi. Con scarso successo.
    Ho saltato la colazione a piè pari, non avendo appetito. Ma mi sono comunque unito agli altri due in cucina, dopo la mattutina attività in bagno. Allo specchio ho osservato il mio stesso volto, dai lineamenti immutati ma della stessa tonalità ossidiana degli altri due. Quella gradazione di colore prossima al nero che mi permetteva di vedere la forma di ogni cosa. Era come guardare la pellicola fotografica di un autoscatto. Ero il negativo di una mia foto di ieri. O viceversa, ormai era lecito dubitarne. Come avrei dovuto dubitare della mia sanità mentale, cosa che non feci. Alla fine poco sarebbe cambiato, i matti sono fermamente convinti di non esserlo, e tanto basta per renderli tali, nella loro realtà. Ecco, la mia, di realtà, è stata ribaltata nel giro di otto ore, non potevo che adeguarmici e cercare di cavarne un ragno dal buco, perché ancora non capivo un tubo. Il provare a far finta di nulla con gli altri non fece altro che disorientarmi ancora di più.
    La colazione era pronta e fumante sul tavolo, tutt’altro che frugale. Poteva essere un pasto completo, contro il mero latte e biscotti che prendevo ogni mattina. Un’english breakfast sarebbe arrossita (meglio, inverdita) di vergogna, trovandovisi a confronto. Personalmente, vedevo così tanta carne solo a Natale. Stranamente, non mi scappò nessun conato, né dovetti reprimerne. In un’altra situazione, alla stessa ora del mattino, mi sarebbe venuta la nausea anche a solo sentirne l’odore.
    Non ho toccato nulla, e mi sono limitato a bere un po’ d’acqua (quella restava trasparente), guardando distrattamente il TG (non mi sorprese, ormai, vedere che la TV era sintonizzata su un programma che, dall’altra parte non avremmo mai e poi mai guardato, preferendo i videogiochi o i reality show). La cronista era in un completo kaki (almeno immaginai quello fosse il suo colore al positivo), e alle sue spalle s’intravedevano case e vicoli polverosi, macerie ammassate e vetri rotti. Ne ho dedotto che si trovava in un paese mediorientale, come cronista di guerra. Parlava con naturalezza, aveva un tono brillante e del tutto privo di timore, tanto da suonare quasi cinico se contrapposto alla devastazione dello scenario circostante, e dei probabili massacri che vi erano avvenuti. Sembrava le piacesse starsene lì, a fare il conto dei morti e dei feriti. Amare il proprio lavoro, in certe situazioni, mi é sembrato un crimine inumano. Ma intanto la scena era cambiata, erano di nuovo allo studio televisivo, di una tonalità iridata, appariscente, che quasi faceva distogliere l’attenzione dalla giornalista, la quale, con i fogli in mano, riportava il messaggio di solidarietà del Papa, il quale si diceva vicino ai sopravvissuti di entrambe le fazioni, e li esortava a combattere ancora, mentre …
    Ho sconnesso le orecchie per diversi secondi. Ero basito, schifato, agghiacciato. E per diversi istanti ho dovuto pensare quali altri aggettivi meglio descrivevano quello che avrei voluto essere. Ho lottato con tutto me stesso contro il senso di compiacimento che sentivo crescere dentro il mio stomaco, come si fa con una tentazione estrema. Sapevo cos’era giusto che provassi, ma non riuscivo a sentirlo davvero. Ero compiaciuto che si morisse, anche se mi sono rifiutato di ammetterlo, allora.
    Qualcosa che non andava c’era. Ero in una Terra all’incontrario, rispetto a quella in cui avevo sempre svolto la mia vita di noiosa routine. Dovevo uscire, fare due passi, saltare l’esame di Analisi (non osavo immaginare come potrebbe essere stata la matematica, qui; già ne capivo poco di là), pensare. Pensare. Pensare. Se in un primo momento questa storia poteva sembrarmi assurda, misteriosa, interessante al punto da impormi il volerne testimoniare in prima persona, ora avevo iniziato a sentire sempre più pesante una sensazione claustrofobica di paura. Ero intrappolato in una dimensione strana, esotica, perversa e dannatamente sbagliata. Ho deciso che il tutto era durato abbastanza, che sarei dovuto tornarmene a casa. Ero terrorizzato, e mi si aprì una voragine allo stomaco. Ovviamente, al mio corpo di solito succedeva il contrario. Senza sedermi, ho preso una coscia di pollo e l’addentai. È stato solo un secondo dopo che mi sono reso conto del mio errore: era insipido e sapeva di latte rancido, lo sentivo scendere lungo l’esofago. Mi svuotò lo stomaco, facendomi venire ancora più fame. Sentivo lo stimolo istintivo di mangiarne ancora, ma lo repressi.
    -Non ho fame- salutai.
    Senza aspettare risposta (sentii Giulia urlare qualcosa alle mie spalle che non capii, Alberto non aveva battuto ciglio, era semplicemente rimasto seriamente insofferente, seduto a mangiare) sono corso fuori, volando sulle rampe di scale, vestito il meno possibile. Ho indossato appena i pantaloni di una tuta e una t-shirt che ho riconosciuto solo dal logo stampato e scolorito, perché ancora non riuscivo a correlare correttamente i colori di qui con quelli veri. Chissà quanto caldo avrebbe fatto qui, l’inverno.
    All’aperto si stava bene, così sistemati. I passanti non sembravano incuriositi dal mio abbigliamento, così poco invernale, come io non ho prestato attenzione a loro. Ho iniziato a correre.
    Era dalla quinta superiore che non correvo così. In meno di cinque minuti, fui al parco vicino casa, completamente senza fiato. Ero certo di essere sufficientemente allenato, fino al giorno prima. Invece ero quasi esausto. Ero sudatissimo, avevo perso moltissimi liquidi, ma non avevo sete. Ho bevuto un goccio d’acqua e mi sono seduto ad una panchina poco distante.


    La condivido con un uomo vestito di tutto punto: giacca e cravatta, porta un cappotto beige e dei pantaloni marroni, con mocassini di pelle dello stesso colore. Questo è quel che vedo, quindi provo ad immaginarlo dall’altra parte, togliendo il filtro negativo all’immagine. Doveva sembrare abbastanza bizzarro, di là, ma a me sembra ordinato e ben vestito. Sono ancora abituato ai canoni cromatici diametralmente opposti, quelli della mia dimensione. Quindi lui è un tipo a posto, ben abbigliato, peluria non corta ma curata, occhiali da vista (sembra quasi il modello che ha ispirato gli occhiali con il naso e i baffi finti che si vendono nelle tabaccherie a carnevale), legge distrattamente un giornale.
    È lui a rompere il ghiaccio:
    -Stanco?- inarca un sopracciglio, senza distogliere lo sguardo dalla sua lettura.
    La risposta era più che palese. Mi limito a continuare ad ansimare pesantemente, chiedendomi dove ci siamo conosciuti.
    -Piacere d’incontrarla, signor Bellinardi. Sono felice che lei, alla fine, sia arrivato qui.
    Crac. Sento, immagino il rumore del ghiaccio artico che si spezza a causa del disgelo. Appena credo di capire come funziona, appare un elemento nuovo, inaspettato, che manda in frantumi le mie convinzioni. Ero convinto che questo fosse un mondo al contrario. O una dimensione, o quel che è. Ma, a quanto pare, è di più. Qui, conosco gente che dall’altra parte non ho mai visto. Ora, mi aspetto che Alberto sfili la maschera con naso e baffi finti, mi dica di togliere le lenti a contatto e di correre a fare l’esame di Analisi. Ovviamente, non accade. In più, se quel naso è finto, è fatto a regola d’arte: si collega perfettamente alla pelle delle guance, senza variare di tonalità (sempre sulla scala del verde scuro, opalino). Anche i pori e le imperfezioni sono fatte talmente bene da poter supporre che quello, in fondo, possa essere un naso vero.
    -Il mio naso è vero quanto me, signor Bellinardi, può pure smetterla di fissarlo così.
    Fico, ora mi legge nei pensieri, pure.
    -Non le posso entrare in testa, signor Bellinardi, non faccia quell’espressione. E più che evidente quello che pensa, glielo si legge in fronte. Basta un poco di discernimento.
    Mi trattengo dall’impulso di strofinarmi la mano sulla fronte, invece chiedo:
    -Posso avere il piacere …?
    -Senz’altro, signor Bellinardi:- una pausa ad effetto, forse sta raccogliendo le idee su chi deve fingere d’essere per inventarsi una storiella credibile - purtroppo non ho nome, anche se la gente mi chiama in diversi modi. Scelga quello che preferisce, è sarà il mio nome.
    Sto per replicare. Sono confuso, non so nemmeno cosa voglio dire. Lui mi interrompe con un cenno del palmo. Per la prima volta, si gira verso di me, posando il suo sguardo gentile sul mio volto. Ho la sensazione però che guardi altrove, forse oltre. Mi sento a disagio. Lui non ci fa caso, o se ne infischia, e prosegue:
    -Lei avrà certo molte domande, lasci che sfoltisca un po’ quell’insieme, senza che Lei faccia la fatica di pensarle e dirle. Tutto quello che ha bisogno di sapere, io glielo dirò, poi se le resteranno dei dubbi, tenterò di chiarire anche quelli.
    Il mio cervello è su di giri, in folle. Pensieri, ricordi, deduzioni, sensazioni si accavallano, sovrapponendosi e finendo per diventare una massa grigia e informe, densa e collosa. Un blob, che mi vuole divorare. Non riesco a cacciar fuori la voce, non riesco a far mente locale, non riesco a trovare un posto sicuro. Mi sento nudo, vulnerabile, circondato da pupazzi dalla morale deviata armati di spilli, e sento la mia pelle liscia e tenera, sotto i polpastrelli. Torno al mondo “reale”, e con un po’ di vergogna mi accordo di aver raccolto le ginocchia al petto e di averle abbracciate, in posizione fetale. Se non altro, non ho pianto. Il tutto in una frazione di secondo fra due periodi del discorso del buffo Colonnello Mustard (così ho deciso che si chiami, assomiglia molto al personaggio del Cluedo). Con nonchalance fingo di aver assunto quella posizione per poter ascoltare meglio: direziono il busto verso il Colonnello, mentre appoggio il mento alle ginocchia. Spero che la mia dissimulazione abbia funzionato, ma non ci spero. Lui, d’altro canto, di nuovo non ci fa caso o se ne infischia.
    - Lei è qui perché io volevo che si trovasse qui, signor Bellinardi.
    Crac. Un’altra spaccatura.
    -Più precisamente, ho fatto in modo che Lei arrivasse qui, nonostante Lei abbia fatto tutto da solo. Mi sono limitato a farLe fare il salto, poi ho semplicemente dedotto come si sarebbero susseguiti gli eventi, ed ho scelto di attenderLa qui ,dove avremmo potuto parlare indisturbati. La aspettavo, appunto.
    Non mi da modo di interromperlo. Ed io non ho ancora deciso se odiarlo o meno. Aspetto che finisca di parlare, lascio passare qualche secondo. Non aggiunge niente. Ha finito?
    -Chi sei?
    -Il mio nome l’hai deciso.-Lo sa, o lo ha intuito.
    -Ok, ma ancora non hai risposto. Sei Dio?
    La domanda bypassa la mia mente razionale e sfugge alla stretta delle mie labbra, troppo lente per poterla trattenere. Non so da dove sia spuntata fuori quella coppia di monosillabi, che, nella loro primordiale semplicità, racchiudono l’infinito. Mi sento come se a pronunciare questa seconda frase sia qualcun altro, appena la sento rimbombare sul palato. Eppure, è mia, da qualche parte l’ho partorita io, e l’ho pronunciata io. Sento una vampata di freddo alle guance, sarò arrossito (anche se “arrossire“ non è il termine adatto qui, temo)? Mi aspetto che si metta a ridere, ma non lo fa, però abbozza un sorriso sbieco.
    -Dipende da cosa intende per “Dio”-due passanti stanno camminando a meno di un metro da lui, ma non accenna a voler abbassare tono di voce di un singolo decibel, proseguendo come se la nostra fosse una quotidiana, banale conversazione sul tempo. Probabilmente, vista con gli occhi di un estraneo sembra proprio così, a parte la mia posizione inusuale. Ma mi è difficile immedesimarmi in un passante qualsiasi di questa anti-dimensione.
    -Non ho una lunga barba bianca- prosegue, mimando il gesto di accarezzarsi la folta ciocca di peluria che dovrebbe scendergli dal mento, -Né sono onnipresente, onnisciente, onnipotente. Penso di poter affermare di non essere il Suo Dio .-
    -Però non sei una persona normale.- Capisco sempre meno,sono ridotto a fare osservazioni elementari ad alta voce. Decido di procedere a piccoli passi, per non correre il rischio di deragliare. Di deduzione banale in deduzione banale.
    -Anche il concetto di normalità è piuttosto soggettivo, sono senziente, ma dubito che questo sia sufficiente a catalogarmi come “persona normale”. Ma posso compiere qualsiasi azione che una “persona normale” è in grado di compiere. Anzi, non per vantarmi, ma so fare dell’ottima pastasciutta…
    -Ma sai fare anche qualcosa in più.- Mi sento sempre più un bambino delle elementari alle prese con i suoi primi discorsi logici.
    -Si. A dire il vero è particolarmente complesso da spiegare, ma, in maniera molto, molto semplificata, possiamo assumere che io abbia una capacità deduttiva fuori del ”normale”, il che mi consente di sapere con discreta precisione cosa accadrà in un determinato luogo ed in una determinata ora. E, ovviamente, le conseguenze che quell’avvenimento avrà nel flusso. Chiamala –posso darLe del “tu”, vero?- consapevolezza vasta, sesto senso…
    -Flusso?
    -Si, il concatenarsi degli effetti eterocausati in uno svolgersi unilaterale del tempo.- Penso di avere qualcos’altro scritto in fronte, perché sembra faccia uno sforzo di sintesi notevole, come un maestro delle elementari che deve spiegare l’Universo ad uno dei suoi marmocchi. Mi sento raggomitolato, oppresso e rannicchiato sotto un banco gigantesco. Non sono abbastanza grande, per queste cose. Intanto Mustard prosegue: -Partiamo dal presupposto che ci sia una causa prima della quale tutto ciò che esiste è conseguenza. Una sorta di primo Big Bang. La sua diretta conseguenza è stata la creazione della materia. E la disposizione di tale materia nello spazio, la direzione delle forze che subisce, e tutti gli altri vari parametri –troppi, ci perderei una giornata- che agiscono su ogni singola particella subatomica ha fatto sì che questa si comporti in una determinata maniera. E, ovviamente, lo specifico comportamento di ogni singola particella subatomica ha determinato il comportamento di ogni atomo, che si è disposto in una determinata maniera, e così via, in un continuo processo di causa-effetto che coinvolge tutto e che ha portato al concretizzarsi del presente così com’è, senza possibilità di essere diverso. Quindi, anche il futuro è già determinato, quello che manca te, a voi tutti, è la capacità di analizzare tutti i parametri di tutto l’universo, e di applicarvi tutte le leggi fisiche in un singolo istante. Un principio di Heisenberg esteso, se capisci cosa intendo. Io, al contrario, sono in grado di farlo.-
    Ho capito qualcosa, qua è là.
    -E io? Dove sono, perché sono qui? Come faccio a tornare alla mia dimensione?- In fondo, queste sono le cose che ho più a cuore.
    -Come ti ho già detto, sei qui a causa mia. Non è affatto una dimensione estranea alla tua. Non sono nemmeno certo che esista, un’altra dimensione. Ma, ripetendomi, non sono onnisciente. Ad ogni modo, questa è la tua dimensione. Ciò che tu vedi non è altro che una parte del Tutto. Conosci il principio di identità. Per poter affermare ciò che una cosa è, è necessario affermare cosa essa non è. Quindi è necessario che esista il suo contrario, altrimenti sarebbe impossibile affermare cosa quella cosa non sia. E sempre per il principio di identità, deve esistere il contrario del contrario, che è il positivo. Non importa quale sia il “positivo” e quale il “negativo”, alla fine sono solo due termini per distinguere due cose diametralmente opposte. Questo è il contrario della realtà cui sei abituato, ed è necessario affinché quella realtà esista. E viceversa.
    Capisco sempre meno, ma abbastanza per poter replicare.
    -Allora com’è possibile che io sia passato da una realtà all’altra?
    -Come hai potuto osservare, nonostante i due poli del reale siano opposti, hanno qualcosa in comune.- s’interrompe, si aspetta che sia io a dire che cos’ha in comune il mio mondo con questo. Vago senza meta fra i lobi umidi del mio cervello, senza articolare un pensiero deciso. Non riesco a rispondere.
    -La logica.-, replica lui al mio posto,- e le sue dirette conseguenze, dette prima. Il principio causa-effetto, e quindi lo svolgersi del tempo dal passato verso il futuro. In entrambi i poli, ad una determinata causa corrisponde lo stesso effetto. Con la differenza che entrambi hanno significato opposto.
    -Ma- scorgo una contraddizione di fondo: l’ultima frase sono riuscito a capirla, -Allora qui il tempo non dovrebbe scorrere al contrario?
    Lui mi rivolge un sorriso a trentadue denti.
    -Inizi a capire. Hai ragione, ma se qui il tempo scorresse al contrario, allora la tua realtà non potrebbe esistere: fingiamo che la realtà duri dieci minuti, o dieci miliardi di miliardi di anni, come preferisci. Fingiamo che, da un punto di vista esterno, siano passati dieci secondi. Da una parte ci sarebbe l’Universo appena formato, dall’altra un Universo prossimo alla scomparsa. Da una parte esisterebbero cose che mancano di un contrario dall’altra, e viceversa. E che quindi, non potrebbero esistere.
    “Eh?”, penso. Ma non mi esprimo, non voglio perdere una parola di quel discorso.
    -La soluzione c’è, e non si discosta da ciò che hai detto tu: parallelamente a questo “sistema di realtà contrarie”, ne esiste un secondo, in cui il tempo si svolge nella direzione opposta, ed in tal modo possono esistere i concetti stessi di tempo, causa-effetto, logica. Comprendi?
    Non ho capito molto dell’introduzione a quel discorso, ma la risposta alla mia domanda l’ho capita. Era tutto complesso, superfluo, sbagliato.
    -Ma allora nel momento in cui mi trovo qui, non dovrei anche pensare come la gente di qui?
    -No, tu sei qui come il tuo opposto è dall’altra parte, le vostre persone, con le relative esperienze opposte, non cambiano, e quindi nemmeno il vostro modo di pensare. Ma, poiché il vostro corpo si trova in questo mondo, è influenzato dalle sue leggi fisiche, che sono uguali alle vostre, ma hanno concretizzazione opposta.
    -Il risultato non cambia-, mi anticipa, -per lo stesso motivo per cui la moltiplicazione di due numeri con un determinato segno da un risultato che è lo stesso per due fattori uguali e opposti ai primi.
    Non colgo il nesso, ma decido che non mi interessa. Comincio a sentirmi indolenzito, e mi accorgo di non sapere da quanto tempo mantengo la stessa posizione fetale. Mettendomi a sedere composto, chiedo l’ultima cosa che mi interessa davvero sapere, l’unica che non ha ricevuto risposta.
    -Come posso tornare a casa?
    Sembra non voglia rispondermi. Ciò mi inquieta e mi irrita. Mi hai fatto venire qui, brutto stronzo, ora fammi tornare a casa.
    -Non tornerà a casa. - , riprende a darmi del “Lei”, - Vede, il creare ponti fra le realtà non è così semplice. È un principio che sfugge persino al mio controllo: posso causarlo, ma non posso prevederne le conseguenze prima che si concretizzino. In pratica, non sapevo se, una volta entrato in contatto con la distorsione che ho creato, lei sarebbe finito qui, o in uno delle realtà in cui il tempo scorre nell’altra direzione, o al mio posto. Potevo, posso, solo procedere per tentativi, e sperare.
    Improvvisamente, il Colonnello mi pare molto più umano. Non è onnipotente, già me l’ha detto, ma il vederlo così, fallire e sperare, lo rende ai miei occhi molto più simile ad una qualsiasi persona di qualsiasi realtà.
    -Perché?- chiedo. –E perché io?
    -Questo non ha bisogno di saperlo, signor Bellinardi.
    Gli sferro un pugno al volto. Non sono di indole violenta, ma tutto ha un limite. Il mio l’ho lasciato a casa. Solo dopo realizzo di non poter colpire qualcosa che già sa dove e quando attaccherò. Lui, senza batter ciglio, si sposta impercettibilmente, ed io finisco per mancarlo.
    -Ma, anche se lo sapesse, non potrebbe cambiare la sua situazione. Immagini l’Universo come un violino: io pizzico le corde, ed esso produce un suono. Ora, immagini quel suono come un ponte che mette in contatto due realtà le quali, pur essendo strettamente correlate, sono separate. Ho pizzicato l’Universo a caso, e lui ha collegato la sua stanza con quella del suo opposto. A vuoto, perché non ha toccato altro che una matita. Tuttavia, poi, voi –entrambi voi, lei ed il suo opposto- siete entrati in reciproco contatto. Vi stavate sovrapponendo, quindi l’Universo, per impedire che implodeste in un ente inesistibile, perché privo di contrario, vi ha separati. Erroneamente, perché vi ha spediti entrambi dalla parte opposta. Come le ho detto, non posso controllare l’Universo: lo posso capire, lo posso pizzicare, ma risponde a leggi sue, fuori anche dalla mia portata. Posso solo andare a tentativi, come le ho detto. Quello che voglio, signor Bellinardi, è che lei prenda il mio posto. Io sono la sintesi di tutte le realtà, ma non sono l’Universo. E sono stanco, sa? Per questo voglio che lei prenda il mio posto. Ora so dove pizzicare –ovvero, dove lei si trova-, e prima o poi ruscirò a spedirla nella realtà che desidero io, la mia, il centro dell’Universo. Allora, per simmetria, anche il suo contrario sarà lì, e diventerete un’unica cosa. E prenderete il mio posto.
    -E tu?
    -Io? Io scomparirò, smetterò di esistere. È quello che desidero.
    -Qual è il tuo contrario?
    -Ma Lei, signor Bellinardi.

    Scappo, scappo da questa realtà a gambe levate, senza badare al mio corpo che protesta. Corro a casa, lontano dal Colonnello Mustard. Voglio tornare a casa, anche questa va bene. Poi penserò come tornare dall’altra parte. Nell’illusione di accorciare le distanze, aumento l’andatura. Vedo il Colonnello ovunque. Non posso sottrarmi al suo giogo perverso. O forse si. Non ho nulla da perdere, in fondo, quindi corro. Volo su per le scale del condominio, sbatto la porta aprendola (sembra fragile, qui), corro in camera. Sotto le coperte. Non bado al freddo crescente, desidero rifugiarmi nel sonno. Voglio dormire. Mi impongo di farlo. Dormo.


    Mi sveglio in camera mia. I colori sono normali, la luce è luce e l’ombra è l’ombra. Però fuori è scuro. L’orologio elettronico dice che sono le ventitrè e pochi minuti. Sospiro. Mi sdraio pancia all’aria. Solo un sogno? No, era troppo reale. Però ora son qui, in camera mia. Ho sognato. Ho avuto un incubo. Resto fermo qualche minuto, poi mi alzo per prendermi da bere. Sento la gola secca. Guardo l’orologio una seconda volta. Rimango di sasso. Le ventidue e cinquantotto.
    “Merda”, penso.
    -Adrem!- impreco.


    Racconto inserito nuovamente.

    Edited by -Leon - 30/3/2009, 16:35
     
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  2. Moridin
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    Sono arrivato fino a

    CITAZIONE
    Oggi, quel giorno sembra così remoto, come un ricordo che si fatica a descrivere, nebbioso. Ma, ponderandolo, ancora lo si riesce ad evocare abbastanza dettagliatamente.
    Era solo ieri, sempre che il tempo abbia ancora importanza.

    e volevo smettere molto prima causa forza maggiore. Quindi direi che prende =P
    l'unica cosa che non mi è piaciuta, è la virgoluta prima frase che mi ha stonato un po'. Per gli errori non preoccuparti eccessivamente; ne ho trovati solo quattro insignificanti, di battitura e due sono delle virgole con lo spazio sia prima che dopo =ç="

    Non so se qualche altro pazzo leggerà tutto, ma io lo finirò u.u
     
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  3. -Leon
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    CITAZIONE (Bleeding•Scarecrow @ 11/1/2009, 23:20)
    Questo è il racconto che ho inviato al concorso Campiello Giovani. Spero lo gradiate. L'ho scritto gli ultimi due giorni, dannato me, quindi magari ci sono errori che mi sono scappati. Ecco, non fatemeli notare, sennò vado in paranoia :asd:

    La prima cosa che mi è venuta in mente è "Ma può mettere su un sito un lavoro che dovrebbe rimanere inedito per un concorso?". Vabbè il problema è tuo, se c'è dimmelo e provvedo subito a rimuovere il lavoro.
    Passiamo alla critica, quel poco che c'è.
    Dico subito che sono invidioso, è una delle cose di me che considero un pregio, perchè è proprio un bel lavoro, mi è piaciuto molto, scritto bene, ricco e sicuramente pieno di fatica. Devo ammettere che all'inizio stavo per mollare perchè mi prendeva poco ma sarebbe stato sciocco chiudere il topic sia per me come persona sia come moderatore. La storia/idea è molto carina mi è piaciuta e ho capito quasi tutto tranne qualcosa che non ricordo :asdsi:
    Complimenti. Dimmi se puoi tenere il lavoro qui in tal caso lo inserisco nell'indice dei racconti brevi dell'utenza.

    Edited by -Leon - 13/1/2009, 20:58
     
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    CITAZIONE (-Leon @ 12/1/2009, 22:08)
    La prima cosa che mi è venuta in mente è "Ma può mettere su un sito un lavoro che dovrebbe rimanere inedito per un concorso?". Vabbè il problema è tuo, se c'è dimmelo e provvedo subito a rimuovere il lavoro.
    Passiamo alla critica, quel poco che c'è.
    Dico subito che sono invidioso, è una delle cose di me che considero un pregio, perchè è proprio un bel lavoro, mi è piaciuto molto, scritto bene, ricco e sicuramente pieno di fatica. Devo ammettere che all'inizio stavo per mollare perchè mi prendeva poco ma sarebbe stato sciocco chiudere il topic sia per me come persona sia come moderatore. La storia/idea è molto carina mi è piaciuta e ho capito quasi tutto tranne qualcosa che non ricordo :asdsi:
    Complimenti. Dimmi se puoi tenere il lavoro qui in tal caso lo inserisco nell'indice dei racconti brevi dell'utenza.

    OMG ora mi viene il dubbio... :gya:

    Cioè, bho, era inedito, quando l'ho inviato xD

    Chiedo l'intervento di un esperto di legge :sese:
     
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  5. -Leon
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    CITAZIONE (Bleeding•Scarecrow @ 12/1/2009, 22:41)
    CITAZIONE (-Leon @ 12/1/2009, 22:08)
    La prima cosa che mi è venuta in mente è "Ma può mettere su un sito un lavoro che dovrebbe rimanere inedito per un concorso?". Vabbè il problema è tuo, se c'è dimmelo e provvedo subito a rimuovere il lavoro.
    Passiamo alla critica, quel poco che c'è.
    Dico subito che sono invidioso, è una delle cose di me che considero un pregio, perchè è proprio un bel lavoro, mi è piaciuto molto, scritto bene, ricco e sicuramente pieno di fatica. Devo ammettere che all'inizio stavo per mollare perchè mi prendeva poco ma sarebbe stato sciocco chiudere il topic sia per me come persona sia come moderatore. La storia/idea è molto carina mi è piaciuta e ho capito quasi tutto tranne qualcosa che non ricordo :asdsi:
    Complimenti. Dimmi se puoi tenere il lavoro qui in tal caso lo inserisco nell'indice dei racconti brevi dell'utenza.

    OMG ora mi viene il dubbio... :gya:

    Cioè, bho, era inedito, quando l'ho inviato xD

    Chiedo l'intervento di un esperto di legge :sese:

    :asdsi: L'unico è Hood, controllerò il regolamento del concorso al più presto,
     
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  7. Quadrø
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    A me è piaciuto molto, forse a tratti avresti potuto rendere il racconto più veloce ma anche così è ottimo, davvero bello null'altro da aggiungere volevo iniziare leggendone due righe e mi ha preso, i miei complimenti. :zxc:
     
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  8. Moridin
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    Evil, a regola dovrebbe essere scritto sul bando o sul sito, controlla lì :zxc:
     
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  9. -Leon
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    Il lavoro deve essere inedito fino a spedizione del lavoro, non viene specificato il dopo. Rimuoverò il racconto e chiuderò il topic momentaneamente riaprendolo in futuro. Quando ricevi una risposta dal concorso -se sei stato selezionato tra i cinque finalisti o no- avvisami che nel secondo caso rimetterò il lavoro.
    Nel frattempo, invito l'utenza a postare qualche racconto breve ; P
    Se Bleed ha domande o richieste mi contatti in privato.

     
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    Lol, non mi ero accorto che fosse stato riaperto XD
     
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