Scena del/della _______

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    Sin dall'ultimo bimestre del 2012, e cioè dai tempi delle prime, memorabili esperienze vissute su questo forum, connesse ad amici ora in grandissima parte smarriti, ma che non scorderò mai e a cui sarò grato a vita, ho sempre desiderato condividere qualcosa di mio su questa sezione, legata intrinsecamente ad uno dei ricordi più belli della mia adolescenza.
    Col tempo, certo, ho capito due cose: che "voler scrivere" è un proposito velleitario e fondamentalmente privo di senso, perché di fatto uno o ha qualcosa da scrivere, insieme alla forza di studiare, documentarsi, prepararsi e disciplinarsi per riuscirci, o non ce l'ha, e che io sono un tipo troppo analitico e troppo poco creativo (lo so, sto ripartendo la mente in compartimenti stagni e semplificando moltissimo come funzionano le nostre teste, ma per amor di sintesi, lasciatemi fare), le cui forze sono naturalmente più orientate alla fruizione, all'interpretazione ed all'analisi che alla produzione, non solo nel contesto della letteratura.
    L'anno scorso, però, mi è venuta una mezza idea, da cui ho provato a tirare fuori qualcosa: come temevo, ne è uscita fuori una decostruzione decisamente ironica di ciò che volevo fare, un risultato tristemente ricorrente ogni volta che tento qualcosa di nuovo. Nonostante il tempo trascorso, però, continuo ad essere moderatamente soddisfatto di questo testo (parola che uso perché non so se "racconto" sarebbe appropriato), e quindi ho deciso che potevo pure mollarlo qui, ignorando ingenuità varie su cui sarebbe stupido e falsificante intervenire ora e perdonandomi per i toni da artistello tragico assunti qui e lì (non stavo passando un bel periodo).
    Tutto è nato ascoltando per l'ennesima volta uno dei miei dischi preferiti, The Blue Hour di Rhys Marsh & The Autumn Ghost, i cui umori hanno dettato i toni, l'estetica ed in parte anche lo stile di quanto scritto, mentre il titolo si rifà ai nomi delle tre parti che compongono il romanzo "Gli Esordi", di Antonio Moresco.
    È un testo decisamente egocentrico, degno di un figlio di questi tempi, ma se leggendolo doveste trovarci qualcosa di piacevole, o che in qualche modo riesca a comunicare con voi, ne sarei davvero molto contento. :3

    EDIT: Essendo il testo diviso in due distinte "voci", ne ho messa una in grassetto e ho segnato il passaggio dall'una all'altra con due righe di stacco.


    Scena del/della _______

    Non ho l’orecchio per identificarla, la nota di celesta che riproduco nella testa ogni volta che una delicata onda morente si avvia a circondare le mie caviglie. Non è una riproduzione spontanea in senso stretto: semmai, la forzo, la piazzo, la ficco nel panorama sonoro della spiaggia su cui ammanto un soffuso filtro ceruleo. Ho tenuto lo sguardo rivolto diagonalmente in basso per un tempo sufficiente: questa immagine, assieme a quella, ripresa dai miei occhi, della riva, può andare. E allora, assicurandosi che le mani figurino ancora nelle tasche, torcere la testa verso destra. In fondo ad uno spazio allungato e convenientemente diviso in una metà sabbiosa ed un’altra pure (solo, sommersa ad intervalli), un muro di roccia di mio gusto e ad una distanza ragionevolmente piacente, non fosse che è leggermente scosceso; meglio più dritto, esattamente retto. Così.


    Come da programma, ho dimenticato di estendere al resto del paragrafo l’atmosfera che la sconosciuta nota di celesta, insieme al filtro ceruleo che pure non ha rimarcato granché la sua azione, avrebbe dovuto infondere in quello che chiamerò insufficientemente il tutto, in assenza di condizioni che legittimino l’utilizzo della parola “scena”, almeno nell’ambito dei miei criteri.

    Come da programma, ho ricordato le mie mancanze relative alla nota ed al filtro.

    Come da programma, ho reso noto di aver timidamente pianificato qualche cosa. Se sia poi vero o no, non devo mica deciderlo io.
    Comunque, mi sa che la nota di celesta la tol-


    E invece quella nota di celesta voglio ficcarcela.
    La mia testa la riproduce, con precisione apertamente romantica, simpaticamente stucchevole, goffamente forzata, tutto sommato accettabile per una percentuale di lettori di cui sotto sotto farei parte se stessi a sentire una delle possibilità che la suddetta testa fa passare per mie, nell’esatto istante in cui un’onda entra in contatto con il mio corpo. E qui corpo è una parola di fortuna, in luogo di una più precisa ed elegante “caviglie”, che se però usassi, proprio in virtù del suo delimitare una esatta zona del corpo a cui il lettore attribuirebbe giustamente un carattere cutaneo, precluderebbe la possibilità di aggiungere un sagace periodo in cui affermo che formali ed inevitabili ritardi della nota di celesta, dati dal fatto che la schiuma tocchi uno o più dei peli delle mie gambe ben prima della pelle della caviglie, non sono contemplati: un pelo non ha mica la stessa carica romatico-evocativa di una caviglia.
    Mentre ci arrivo, mi dico che il mio spirito romantico deve aver sicuramente fatto suonare la celesta altre quattro o cinque volte, e che è ora di concludere la ripresa filtrata in ceruleo del fazzoletto di spiaggia entro i miei occhi, magari aggiungendo in extremis un leggero ed ulteriore abbassamento del capo sui miei piedi, così, per imprimere maggiori dinamicità e pathos giovanile alla torsione verso destra in dirittura d’arrivo, grazie ad un lieve tremolio nell’inquadratura ferma per un paio d’istanti sulle mie gambe che non so come definire “parzialmente immerse in acqua (almeno finché la risacca non recita la sua parte)” senza percepire l’ineleganza del non chiarire che lo sono solo fino all’altezza di quelle caviglie che, già citate innumerevoli volte in questo paragrafo, renderebbero anche una simile soluzione decisamente scialba.
    Prima che la mia attenzione si conceda tutta al muro roccioso, la nota sconosciuta di celesta assesta una quindicina di martellate nel giro di un secondo; ci pensi il mio spirito romantico, a ripartirle adeguatamente nell’immediato passato.
    Ora, muro di roccia: raddrizzati. Frastagliato (e filtrato in ceruleo), sì, ma senza inclinazioni. Apposto.



    Come da programma, hai fallito nell’offrire alla celesta ed al filtro un ruolo narrativo (di che?), trasformandoli nell’ennesimo oggetto di astrazione.

    Come da programma, grazie all’inquadratura dinamica sulle tue gambe ti assicuri che i pantaloni, grazie a Dio, coprano le tue orribili ginocchia.

    Sarebbe forse il caso, intanto, di chiedersi sgraziatamente che diamine dovrebbe essere la testa che insiste a riprodurre la nota di celesta, e se forse non sarebbe il caso di ridefinirla più adeguatamente.


    L’impellente necessità di aggiungere del patetismo sonoro alla resa immaginifica della pseudo-scena che mi appresto a buttare giù partorisce un rintocco di celesta per ogni volta che-


    Come da programma, ora ti sei rotto: racconterai e basta.


    Non ho l’orecchio per identificarla, la nota di celesta che riproduco nella testa ogni volta che una delicata onda morente si avvia a circondare le mie caviglie. Il ceruleo dell’acqua segue i miei occhi fino alle mie gambe spazzate dal vento, fino alla sabbia, come i miei occhi seguono la scompigliarsi verso destra dei miei capelli. In fondo ad una o più lunghezze di sabbia in parte asciutta ed in parte (ir)regolarmente sommersa, sbatto con lo sguardo contro un muro di roccia piacevolmente frastagliata, ma priva di inclinazioni in verticale: come ogni struttura che nei miei sogni sia sviluppata in altezza.
    La spiaggia non mi è mai riuscita ospitale, eppure è proprio qui che infine vengo contraddittoriamente a ricercare la mia perduta Vertigine: se armonizzo il ceruleo, la celesta e questa immagine di spiaggia, o credo di farlo, ecco che mi sembra di percepirla, debolmente, per un istante ancora.



    Come da programma, hai raccontato lo scadente concepimento di un’immagine in assenza di mezzi per raccontare l’immagine stessa e la sua importanza, probabilmente illusoria, nei tuoi processi di ristabilimento dell’emotività fluviale (magari ondosa, giusto per mantenere un lessico attinente al contesto) che potevi vantare nella prima adolescenza.

    Come da programma, ti illudi allora di aver in qualche modo offerto un racconto, e non uno sterile sfogo esplicativo della tua condizione soggettiva in senso stretto, sfruttando la natura contraddittoria del presente testo.

    Come da programma, show, don’t tell.


    Edited by Leventhan - 9/10/2018, 19:21
     
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    The dark side

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    Io non sono un artista, non mi sento di dire che ho un chissà che processo creativo; ma qualcosa lo faccio anch’io.
    E con qualcosa intendo qualsiasi cosa, non mi dispiace sperimentare; ma tra tutte le arti una che sebbene io abbia provato e riprovato non mi riesce è la musica (non so suonarla figurati comporla).

    Anche per il fare beat o musica elettronica in generale, non è qualcosa che sento nelle mie competenze.

    Però una delle cose che mi ha sempre ha sempre affascinato di chi compone è l’immaginarsi il suono delle note; questo concetto lo ebbi dopo aver visto il film su Mozart. Non che quando modifichi un immagine o monti un video io non abbia un’idea di cosa sto facendo eh. Con la musica però è diverso, io se non trovo la texture giusta ripiego sul meno peggio, ma in musica vuoi quella nota lì. Mi ha sempre affascinato molto.

    So che non era questo il tema principale dello scritto e che serviva da metafora, anche se mi sono incartato sul significato sbagliato mi è piaciuto.

    Se concedi, senza alcuna offesa e presunzione (che non sono un critico ne un chissà che accademico), una critica la ho.
    La forma è fin troppo artificiosa, perde in eleganza perché le troppe ricercatezze non fan risaltare quelle migliori
     
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1 replies since 9/10/2018, 12:07   144 views
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