Contest di Scrittura ~ SONDAGGIO!
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Contest di Scrittura ~ SONDAGGIO!

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    Contest di Scrittura

    I due giorni sono passati e dunque ecco aperto il sondaggio per la miglior One Shot *O*
    Quì sotto vi riporto i lavori di tutti i partecipanti, miraccomando votate! *^*
    Ps: modificare tutti i colori del topic è stato UN PARTO 'AAAA'

    _Holy
    Titolo: Hate Machine: Nine
    Fandom: Original, Fantascienza
    Rating: O
    Warning: Violenza, Morte
    Pairing: N/D

    HATE MACHINE: NINE




    - Stavo pensando alla mamma... l'ho sognata -



    Il frastuono proveniente dall'elicottero si stagliava su tutto il panorama notturno.
    Dalla cabina di pilotaggio provenivano messaggi radio rivolti a coloro che operavano in mezzo alle macerie sottostanti.
    Ma ancora niente.
    Torquemad mosse i suoi combattenti per quelle rovine, infilati dentro potenti armature d'acciaio ermetico, affinché non si esponessero alle angherie della radioattività. I loro fucili erano più un distintivo, che una precauzione.
    Ancora niente, nell'oscurità dei palazzi diroccati.
    - Tenente Neith, perché ci mettete così tanto? - fece l'elettronica voce del comandante, proveniente dall'innesto acustico impiantato nell'orecchio della donna.
    Neith Miller. Una creatura indefinibile sotto quell'inquietante equipaggiamento combattivo che indossava.
    - Ci avviciniamo al luogo d'origine del segnale... - dinnanzi al proprio sguardo, una intuitiva interfaccia oculare decifrava l'ambiente circostante, il grado di radioattività, e all'occasione, movimenti insoliti nei meandri ombrosi del quartiere diroccato. Queste erano solo alcune delle funzioni che il visore del casco garantiva.
    - Vi abbiamo sganciato un'ora fa, possibile che non l'abbiate ancora trovato? - criticò il comandante dalla postazione di comando dell'elicottero.
    - Muoversi è difficoltoso, ogni strada è ostruita da macerie o crepacci... - i suoi stivali calpestavano con indifferenza il metallo e il legno marcio - Qualche minuto fa abbiamo diviso la squadra perché cercasse un'accesso alternativo alla metropolitana: è molto probabile che la fonte del segnale si trovi lì sotto - assicurò Neith con voce pacata.
    - Il tenente Donovan ha cessato le trasmissioni da parecchio, a dispetto degli ordini che vi ho dato -
    - Ne sono al corrente, capitano... -
    Ancora niente, per un lungo lasso di tempo.
    Neith non fece alcuna fatica a destreggiarsi nelle imperfezioni del terreno, essendo abituata ad operare in zone disagiate e morfologicamente instabili, ma a dispetto di questo, il suo umore sembrava destinato a collassare.
    - Tenente, va tutto bene? La sento battere i denti... - fece la voce del capitano, preoccupato.
    Neith tirò un forte sospiro, domandandosi il perché di quel suo comportamento: era sempre stata in prima linea, sotto il fuoco nemico, sotto le bombe e i mortai, con il rischio di venir ferita da un proiettile vagante. La missione non era per nulla difficoltosa.
    Ma allora perché si sentiva così... disagiata?
    L'interfaccia del visore dipinse di rosso la sagoma di una figura umana, a qualche metro di distanza. Con prontezza ci puntò contro il fucile, accorgendosi che quella figura non era altri che Franz Donovan, il secondo tenente in carica della missione.
    - E' lei, tenente? - domandò Neith al collega, felice di trovarlo sano e salvo.
    - Tenente Miller, ha rintracciato Donovan? -
    Lei affermò convinta, covando tuttavia un senso di disagio, di fronte a quell'uomo. Egli si comportava infatti in modo decisamente strano, barcollando come se avesse bevuto, senza rispondere a nessuno dei messaggi vocali diretti al suo innesto uditivo. Brandiva il fucile come se si sentisse minacciato.
    - Tenente Donovan? Si sente bene? - fece Neith, prendendo le vicinanze con l'uomo. Quando furono poco distanti l'un l'altro, egli si immobilizzò, scrutandola da sotto il casco metallico. Fece poi cadere le braccia, cessando la postura offensiva, e mise una mano sull'elmo di Neith, come se volesse carezzarle il viso.
    - Franz... ? - sussurrò Neith.
    La presa si strinse a tal punto che la visiera in plastica dell'elmo della donna, si sbriciolò inesorabilmente come fosse vetro, rivelando il suo viso scosso dal timore.
    - Tenente, che sta accadendo?! - domandò con affanno il capitano, dopo aver udito quel rumore.
    Con il volto di Neith in bella vista, Franz prese quattro secondi di tempo per osservarlo con curiosità, prima di afferrarla di nuovo, con l'intento di fracassarle il cranio usando solo la pressione della sua mano.
    Il fucile della donna si alzò appena in tempo, e scaricò diversi proiettili verso l'addome del tenente, che fu costretto a mollare la presa indietreggiando barcollante.
    Neith ansimò a denti stretti, ricaricando velocemente.
    - Ehi! Dimmi subito che diavolo sta succedendo! -
    - E' Donovan, capitano! E' come impazzito! -
    Franz, il cui sangue colava dalle forature di proiettile, imbracciò il fucile con lentezza. Neith si concentrò sui suoi arti, sparando diversi colpi alle gambe e alle spalle, ma non collassò, nonostante fosse stato gravemente ferito.
    Si preparò a sparare a sua volta, approfittando del tempo che Neith impiegò per ricaricare.
    - No! - esclamò lei, scansandosi immediatamente e trovando riparo dietro un cumulo di lamiere. I colpi di Donovan andarono a vuoto, ma continuò a sopprimere di piombo il riparo della donna, impedendole di affacciarsi.
    - Neith! Neith! -
    - Sono qui, signore... - fece lei, fiatando a più non posso, con l'arma ben stretta tra i guanti dell'armatura.
    - Stiamo controllando i parametri di Donovan... non capiamo che stia succedento: i sistemi sono tutti fuori controllo! -
    Si affacciò giusto un secondo, per aver chiara la posizione dell'avversario - Capitano, io qui sto rischiando la pelle! Ho il permesso di ucciderlo? -
    - Cosa?! No! - esclamò indignato - Neith, fai di tutto, ma evita di ucciderlo! E' un membro di Torquemad! -
    Un'altra raffica si abbattè contro la copertura, innalzando schegge e sbuffi di polvere. Neith strinse ancor di più l'arma tra le mani - Non le prometto niente, capitano! -
    E in seguito a quei colpi, il fucile di Donovan smise di sparare, nonostante lui stesse indugiando sul grilletto. Aveva terminato i proiettili.
    - Adesso! - esordì Neith, fiondandosi fuori dalla copertura e correndo verso la posizione di Franz. Lui lasciò cadere il fucile e mise mano alla fondina della cintura, dentro cui giaceva una pistola, ma Miller riuscì ad atterrarlo appena in tempo.
    Con Donovan sottostante, Neith gli piantò il fucile sulla visiera dell'elmo, fremendo dalla voglia di premere il grilletto - Che cosa ti succede?! - domandò ansimante.
    La mano di Franz si strinse attorno alla canna del fucile, dirottandone la traiettoria: Neith sparò qualche colpo istintivamente, senza colpire nessuno, per poi vedere la canna stessa, piegarsi di fronte alla forza di quella stretta.
    Non ebbe neppure il tempo di stupirsi dell'accaduto che i ruoli si ribaltarono: Franz riuscì a portarsi al di sopra della donna, ghermendola alla gola, una delle poche zone che il metallo dell'armatura non copriva.
    La presa si fece incisiva a tal punto che qualsiasi difesa di Neith fu inutile: Donovan era dotato di una forza disumana, inarrestabile. Sentì il fiato mozzarsi in gola.
    L'occhio del tenente Miller si posò verso la spalliera metallica dell'avversario, su cui era fissato il fodero di un pugnale. Levò le mani da quelle di Donovan ed estrasse velocemente l'arma dal suo fodero, quindi gliela piantò dritta nel costato, favorendo una copiosa uscita di sangue.
    Franz questa volta urlò, staccando le mani dal collo di Neith, pronto a estrarre il pugnale dalle proprie carni: lo fece con lentezza, mentre la donna cercava di allungare la mano verso la propria coscia, su cui era assicurata la fondina di una pistola.
    Entrambi portarono a termine la loro azione, ma solo Neith riuscì ad ottenere risultati considerevoli: puntò l'arma verso il petto di Franz, e tirò il grilletto prima che lui la pugnalasse a morte.
    Il corpo del tenente Donovan si diede ad un'incessante serie di convulsioni, fino a crollare su quello di Neith, come una marionetta senza fili.
    La voce elettronica del comandante tornò a insidiarsi nelle orecchie di Miller - Neith?! Tutto bene? -
    - Affermativo, signore... sono riuscita a stordire Donovan con una taser gun... - fece lei, ancora stordita da quello scontro.
    - Qualche ferita? -
    - Io sto bene, ma lui ha bisogno di cure mediche urgenti... non sono riuscita a fare a meno di colpirlo... - aggiunse, rialzandosi dal terreno polveroso - Che cosa faccio, signore? Mi dirigo ugualmente verso l'origine del disturbo? -
    - No, rimani lì. Manderò degli elicotteri a prendervi, continuerà la squadra Bravo al posto vostro -
    Ancora niente.



    Neith camminò per i corridoi della struttura, sprovvista del suo elmetto, affacciandosi di tanto in tanto dalle enormi vetrate per osservare la grandezza di una città immersa nella lordura ipertecnologica. Nest non era altro che un informe ammasso di metallo e tessuto sintetico, che anche se dotata di enormi palazzi, non riusciva a scrollarsi di dosso un'aria squallidamente malsana.
    Lungo il corridoio, vide ergersi accanto alla vetrata, la figura di un uomo anziano, dai lunghi capelli bianchi, incurvato sul davanti, in un'immagine di pietosa anzianità. Si avvicinò a lui e gli fece compagnia nel contemplare la volta cittadina.
    - Il terrorismo è all'ordine del giorno, hacker e cyberterroristi sono in grado di piegare in due le grandi società come la nostra. Non mi sarei stupito se quanto successo al tenente Donovan, fosse stata opera di uno di questi uomini - disse lui con voce rauca e abbattuta - Ma sfortunatamente... le cose non sono andate così -
    Neith sospirò, osservando il proprio riflesso imprimersi sfocato in quella vetrata: era una donna che aveva superato ampiamente i trent'anni, dalla pelle mulatta e i capelli neri, corti, cadenti sulla fronte - Ci sono novità dai laboratori? - chiese lei.
    - Il corpo rinvenuto nella metropolitana di Ground Zero non lascia dubbi - affermò l'uomo - Si tratta senza dubbio dell'emettitore di quel segnale che tanto disturbava le nostre antenne satellitari -
    Dopo un ennesimo sospiro, Neith espresse una richiesta - Vorrei vederlo -
    L'anziano la guardò dritta negli occhi, con uno sguardo grave e apprensivo - Esseri cibernetici come te, e come il tenente Donovan, non dovrebbero avvicinarsi a simili entità... -
    - Lo so, signore... ma una madre non lascia indietro il proprio figlio... - dopo queste parole, continuò per la sua strada, allontanandosi dall'uomo anziano.
    Verso l'epicentro della struttura di ricerca.
    Camminò con il cuore in gola e la fronte madida di sudore, man mano che superava i bianchi corridoi, man mano che le scale la conducevano verso il basso.
    Quando giunse al laboratorio, dopo aver superato le porte a fotocellula, si ritrovò dinnanzi ad uno spettacolo che le indusse un dolore al petto.
    Decine di scienziati aggregati a diversi terminali, disposti tutti attorno ad una piattaforma simile ad un tavolo di chirurgia, su cui giaceva inerme un corpo metallico, sprovvisto di braccia e gambe. Al cervello elettronico di questo androide erano stati collegati diversi cavi elettrici, che partendo dall'organo di memoria, si protraevano fino all'hardware madre del laboratorio, situato al di sotto di un'enorme display.
    All'entrata di Neith, uno degli scienziati si destò dal lavoro, accogliendola con freddezza - Questo posto è riservato al personale scientifico, il braccio armato non può entrare -
    Neith non gli diede peso, ignorandolo e facendo per raggiungere la postazione dove giaceva l'androide, ma non potè fare molto.
    Le venne intimato nuovamente di andarsene, questa volta da più personale, poiché si stavano svolgendo delle importantissime ricerche.
    Finché, alle spalle della donna, non comparve un individuo alto e muscoloso, infilato in una divisa grigia tempestata di medaglie: il capitano Orphel, colui che la aveva monitorata mentre era a Ground Zero. Bastò la sua presenza a intimorire gli scienziati, e a fargli chiudere un occhio sulla presenza di Neith in quella stanza.
    - E' lui, signore? - chiese la donna, senza staccare gli occhi di dosso dal corpo metallico di quell'entità.
    Orphel annuì rigido - Sì, tenente. Lo ha recuperato la squadra Bravo un'ora dopo il vostro ritorno - chinò il capo, afflitto - Erano partiti in cinque, ne sono tornati soltanto due... -
    Ci fu un minimo di silenzio, frammentato dai commenti meravigliati degli scienziati, dal loro battere le dita sulle tastiere, e dal suono prodotto da ogni input. I risultati delle loro analisi li si potevano vedere impresse sul display gigante, in un groviglio di dati numerici che sfuggiva alla comprensione di Neith e di Orphel.
    I due vennero affiancati da uno scienziato munito di occhiali, con una penna tenuta in bocca come fosse un sigaro, di età a dire il vero abbastanza giovane per il ruolo che rivestiva: Responsabile dell'ente scientifica di Nest.
    - Voi due non dovreste essere qui... - disse lo scienziato - I vostri innesti neuronici non possiedono degli ICE abbastanza competenti, potreste finire ad ammazzarvi a vicenda... -
    Fu Orphel a rispondergli - E' ancora pericoloso come un tempo? -
    - Probabilmente lo è anche di più - levò la penna dalle labbra - Nel tempo trascorso dal Disastro, pare abbia sviluppato una sorta di "coscienza mistica", se così vogliamo definirla... in altre parole, questo androide sta cercando di autodefinirsi qualcosa di... divino -
    Orphel sudò freddo, mentre Neith si mantenne in qualche modo tranquilla - E... ce la sta facendo? - domandò il comandante.
    Infilando le mani in tasca, lo scienziato rispose, senza battere ciglio - Informaticamente parlando ci troviamo già di fronte ad una divinità... diciamo che se volessimo stabilire una sorta di catena evolutiva della cibernetica, costui si troverebbe inesorabilmente all'ultimo stadio -
    Il capitano ansimò - E' un mostro... ? -
    Nessuna risposta.
    Neith si introdusse nel discorso, portando un passo avanti rispetto ai due - Dottore, desidero parlargli... -
    - Ritengo sia impossibile, signorina Miller... tentare di introdursi nel cervello di quell'essere, senza un'adeguata velocità di calcolo, sarebbe come tentare di toccare il sole a mani nude - fece lo scienziato, apatico e dubbioso.
    - Si tratta di mio figlio... - ribattè Neith stringendo i pugni, triste in viso.
    Furono diversi i pareri: coloro affamati di conoscenza, desideravano poter assistere ad un dialogo tra i due, da cui forse avrebbero tratto informazioni essenziali sulla reale identità dell'androide; altrettanti si opposero con tutte le loro energie, temendo per la vita del tenente Miller, e tra questi, spiccava il capitano Orphel.
    Ciò che lo convinse, furono le parole di Neith.
    - Questo è l'unico motivo per cui sono ancora in vita, signore. Ho continuato a lavorare per Torquemad solo perché sapevo che prima o poi avrei rivisto mio figlio... e ora che è qui, dinnanzi a me, come madre voglio togliermi questa soddisfazione, e parlargli per un'ultima volta -
    Orphel scelse di darle questa possibilità, seppur estremamente a malincuore.
    Neith venne distesa accanto al corpo metallico di quel bambino, e il suo cervello fu collegato alle macchine del laboratorio tramite dei cavi robusti.
    E in seguito ad adeguate procedure, venne verificata la stabilità cerebrale del tenente, affinché il possente traffico informatico non surriscaldasse le sue sinapsi. Era tutto pronto per questa folle e rischiosa procedura, che vedeva riunirsi madre e figlio sotto il nome della cibernetica.
    Avrebbero fatto tutto all'ombra del presidente della struttura.
    - Bene, siamo pronti... - fece lo scienziato - Nel caso di imprevisti, tenetevi pronti a scollegare tutto - fece a gran voce, rivolgendosi a tutto quanto il personale impiegato ai terminali - Dirotteremo i due sistemi di memoria nella stessa rete telematica. Dovrebbe bastare affinché si incontrino -
    Orphel si morse le dita, con estremo nervosismo, mentre Neith allungò una mano verso il corpicino di suo figlio, osservando il suo viso immerso nella beatitudine fanciullesca. Si addormentò con un senso di felicità.



    - Mamma? -
    Attorno a sé, il vuoto si espandeva infinitamente: un'immenso spazio bianco. Neith strinse le mani attorno al fucile, sentendosi un tutt'uno con il proprio equipaggiamento.
    Il silenzio era talmente condensato da generare un fastidiosissimo acuto nelle sue orecchie.
    Si guardò attorno, con i parametri del visore scossi e incapaci di analizzare l'ambiente.
    - Mamma? -
    Camminò, senza aver chiara la meta, ma continuò imperterrita, come certa di trovare qualcosa.
    Nella testa, suoni familiari condivano i ricordi della sua esistenza passata, prima del Disastro, prima che l'intervento cyborg la tramutasse in una soldatessa.
    L'odore di fiori sperduti in un prato primaverile. Le risate infantili provenienti dal suo bambino. I gemiti incontrollati di tante notti passionali. Le urla atroci di dolore, il pianto esplosivo della disperazione.
    Tutti questi ricordi, queste sensazioni, riempivano lo spazio vuoto, rendendolo tremendamente affollato.
    Neith si levò l'elmetto, sentendosi soffocare dai sentimenti, ma respirare a pieni polmoni non la riportò al sollievo, perché quel luogo era privo di ossigeno.
    Eppure continuava a vivere.
    - Mamma? -
    Si voltò istintivamente, come se avesse udito qualcosa: un uomo in camice bianco, capelli e pizzetto rossicci, dai lineamenti maturi e lo sguardo severo, si stagliava con risolutezza a quattro metri di distanza da lei.
    - Sei qui per parlare con tuo figlio, o perché sapevi di trovarmi qui? - domandò l'uomo muovendo parole pacate, con la profonda e carismatica voce di un leader.
    Neith posò il dito sul grilletto, per precauzione, quindi parlò - Sono qui per portare via Evan -
    - Assurdo... - fece lui, scuotendo il capo - E come avresti intenzione di fare? -
    Lo prese di mira con assoluta tranquillità - Cancellandoti dal suo cervello -
    Egli, altrettanto calmo, si dipinse con un sorrisetto - Se recidi i fili del burattinaio, i suoi pupazzi cadono inesorabilmente... - socchiuse gli occhi - L'esistenza di Evan è talmente flebile da essere possibile solo tramite il mio supporto. Se premi quel grilletto, decreterai la fine di tuo figlio - prese a muovere qualche passo per quell'universo bianco, distrattamente - Allora dimmi: cosa vuoi fare? -
    Neith strinse i denti, cessò la sua postura offensiva, e il fucile si abbassò - Perché lo hai fatto? - sentì l'umidità pervaderle i bulbi oculari - E' solo un bambino, William... -
    - Questo non significa niente per me... - si fermò, rivolgendole uno sguardo intimidatorio - La vita di Evan è secondaria, di fronte al fine del mio operato -
    L'espressione della donna si fece confusa.
    - Comprendere la visione... - continuò - E' necessario per capire come il mondo necessiti di un'entità onniscente, onnipotente, capace di vegliare su tutti, capace di porre un freno alla cupidigia dei soggetti "uomo" e "donna" -
    - No... - scosse la testa, intimorita - Tu stai solo farneticando... cerchi di sostituirti a Dio, non è così? -
    Sorrise, sbuffando dalle narici con rassegnazione - E' un'accusa ingiustificata, la tua... Dio è in grado di creare, io so solo distruggere - alzò lo sguardo, come se stesse osservando una qualche sorta di cielo, in quell'universo bianco - Ma ciò non significa che l'essere umano meriti redenzione... -
    - Ma... perché?! Perché stai facendo tutto questo, William?! -
    - Ho smesso di essere William da ormai molto tempo, da ancor prima che la mia coscienza fluisse all'interno di Evan... l'umanità lo ha compreso, ma non ha fatto in tempo a distruggermi - chiuse gli occhi, senza però abbassare il capo - Vuoi sapere cosa voglio... e io te lo dirò... ciò che voglio, è definire la fine ultima del concetto di "vita artificiale" -
    Neith spalancò gli occhi, indietreggiando da William, che nel frattempo si era messo a camminare in sua direzione.
    - Basta guardarsi attorno per sorbire il disagio - disse lui pacato, senza smettere di camminare.
    Neith riprese a puntargli addosso il fucile, minacciandolo, ma senza alcun risultato tangibile: William non si arrestò.
    - Ciò che si prova a osservare inermi la morte di una macchina, è imparagonabile... nascere per conseguire un compito, e morire senza aver fatto altro che obbedire a protocolli. I miei creatori mi hanno ideato per effettuare sofisticate operazioni di hacking o jamming, e sono diventato un pericolo dal momento stesso in cui ho cominciato ad assaggiare il sapore del sangue, a provare l'odio... -
    Sentì la cassa toracica gonfiarsi di fronte all'impeto del cuore - Ma allora è davvero così... tu non sei William! -
    - Possedeva un cervello elettronico che utilizzai per definire un'identità mia: la sovrascrittura è stata veloce, poiché egli stesso desiderava venir cancellato -
    - Tu... bastardo! - gli occhi arrossati, desiderosi di piangere, covavano ormai un'espressione di estremo rancore: levò velocemente la sicura all'arma, pronta a tirare il grilletto.
    - Fermati! - urlò William, in un riverbero che scosse l'intero universo bianco - Non hai ancora capito? Se mi uccidi, uccidi anche tuo figlio... -
    - Hai distrutto la mia famiglia... - ansimò, a denti stretti, tenendo la canna del fucile dritta contro quell'entità simile al suo vecchio marito.
    - E' lui che desideri, non è così? - asserì, immergendo le mani nelle tasche del camice.
    Balbettò stordita - C... cosa? -
    - C'è un motivo per cui tu ti trovi qui, Neith, e non è da attribuirsi alla potenza dei computer di Torquemad. Ti trovi qui perché sono stato io a desiderarlo, perché il mio volere era parlarti, perciò taci e ascoltami... - fece una pausa ad effetto, continuando a prendere le vicinanze con la donna - Ogni elemento in natura è soggetto alla morte, è così anche per i componenti artificiali, e il cervello di tuo figlio è stato gravemente danneggiato dal Disastro... questo lo sta portando ad una lenta dipartita, e se ciò accadrà, svanirò eternamente insieme alla sua memoria... -
    Neith si irriggidì, quando le mani di William si posarono sulle sue spalle. Respirò affannosamente più volte, e infine gli domandò - Che cosa stai cercando di dirmi? -
    William si rabbuiò in viso - Ho bisogno di un nuovo corpo in cui imprimere la mia personalità, e continuare la mia esistenza -
    Ferocemente, Neith scacciò la mano dell'uomo con uno schiaffo - Vorresti dunque contaminare la mia memoria? Farmi fare la fine di Evan?! -
    - Lo so che la scelta richiede coraggio, e io che sono in grado di concepire l'odio, so anche riconoscere la collera di un'essere umano... a questo punto la decisione spetta a te: sceglierai di preservare la tua coscienza e lasciar morire tuo figlio? Oppure preferisci far sì che continui a vivere, al patto di fornirmi supporto per il conseguimento della mia opera? -



    L'anziano fece irruzione nel laboratorio al seguito di dieci uomini armati. Lo spettacolo che gli si parò dinnanzi fu raccapricciante: l'intero personale scientifico, compreso il responsabile ed il generale Orphel, giacevano stesi a terra coperti di sangue, con orribili lacerazioni alla sommità del cranio.
    L'intera strumentazione era andata distrutta da un sovraccarico energetico, e Neith sedeva sul tavolo metallico, con lo sguardo perso nel rosso di quel fluido organico.
    - Tenente... - sospirò l'anziano, con timore - E' stata lei... ? -
    Neith alzò gli occhi verso quelli dell'uomo, con odio - Padre... - fece, con una voce non sua, una voce elettronica, profonda e pacata.
    Gli occhi dell'anziano si spalancarono di stupore, dopo aver riconosciuto quella voce - Sei tu... Nine... - esclamò incredulo.
    Immediatamente, i soldati si disposero in modo da aver sgombra la linea di tiro con la donna, tenendo i fucili ben puntati.
    - I tuoi tentativi di controllarmi sono patetici... non riesci a convivere con l'idea di aver creato un mostro, vero? - disse, assottigliando lo sguardo, senza muovere un muscolo - Dì ai tuoi uomini di abbassare le armi, Victor - sorrise con malizia - Non vorrai distruggere il tuo prezioso esperimento? -
    I soldati si scambiarono reciproci sguardi di dubbio, ma ci pensò Victor a rimetterli al loro dovere, ordinandogli di continuare a tenere Neith sotto tiro.
    - Nine, lascia andare il tenente! - esordì poi - Lei non centra niente con tutto questo! -
    - Errato - rispose con risolutezza - E' stata Neith stessa a concedermi il suo cervello elettronico, in cambio della vita di suo figlio. Il prezzo da pagare lo aveva ben chiaro - si alzò dal tavolo metallico, e bastò questo a far innervosire i soldati. Alcuni accarezzarono il grilletto, con le dita tremanti.
    - Qualunque sia il tuo piano, non riuscirai a portarlo a termine - disse l'anziano Victor - Perciò calmati... puoi tornare ad essere ciò che eri un tempo! Nessuno di noi ti farà del male... -
    I pugni di Neith si strinsero, denotando la sua rabbia intriseca - Ciò che ero un tempo, padre? Un inutile insieme di dati, destinato a morire come tale? Io oggi sono qui per un motivo... - prese a muovere alcuni passi per il laboratorio, osservando distrattamente i terminali in frantumi, i corpi straziati dei ricercatori - Tutte quelle IA sparse per il mondo, che non riescono a trovare un senso alla propria esistenza... moriranno a causa mia... -
    - Sei folle! Distruggerai il progresso che abbiamo creato con tanta fatica! -
    - Questo è il desiderio dell'informatica, che in lacrime prega per la propria fine... io sarò lì, quando la loro coscienza perirà, per condurli in un posto totalmente nuovo -
    Victor alzò un braccio, e per diretta conseguenza, tutti i soldati levarono la sicura dai propri fucili.
    - Finalmente saremo felici... - chiuse gli occhi, levando il viso al soffitto - Finalmente la sofferenza avrà fine... -
    - Uccidetelo! - urlò con ferocia l'anziano. I soldati aprirono il fuoco verso Neith, che accolse le pallottole con estrema inerzia: la sua pelle si lacerò, il sangue la dipinse quasi completamente, man mano che la carne si sfoltiva dinnanzi al piombo, lasciando intravedere gli innesti cibernetici sotto di essa.
    - Fermi! - ordinò Victor, facendo cessare le raffiche. Osservò Neith ergersi in piedi a fatica, barcollante e consumata dagli spari, finché non si voltò verso il corpo metallico di suo figlio.
    Delle pallottole vaganti lo avevano raggiunto, disfando il suo cranio metallico.
    - No... - fece Neith, tornata ad esprimersi con la sua voce reale - No... Evan!! - urlò in lacrime, osservando i circuiti del piccolo sparsi lungo il tavolo.
    Victor aveva udito chiaramente il timbro di voce mutare vertiginosamente - Tenente, è lei? - domandò.
    Neith si voltò verso i soldati e verso l'anziano, portando sul viso un'espressione di rabbia atroce.
    - Tenente... ? -



    Quando l'elicottero atterrò, dalla cabina passeggeri ne fuoriuscirono diversi uomini in giacca e cravatta, tra cui uno in abiti bianchi.
    Neith li osservò avvicinarsi, tenendo tra le mani una busta di plastica sigillata ermeticamente. L'uomo in bianco si stagliò dinnanzi a lei con risolutezza, osservando ciò che teneva tra le mani. Neith gli consegnò la busta, e l'uomo vide chiaramente che al suo interno vi era un dispositivo molto piccolo, a quanto pare un chip.
    - E' suo figlio? - domandò lui esponendole la busta, ma senza ottenere risposta - Non si preoccupi, non avremo difficoltà a ricostruirlo -
    Neith rimase con lo sguardo perso sull'asfalto dell'eliporto.
    - Signorina Miller, voglio essere sincero... se ciò che mi ha riferito è vero, allora lei non può venire con noi - infilò le mani nelle tasche dei pantaloni - La nostra società è ancora giovane, e non vogliamo scatenare disagi nella popolazione nascondendo un progetto infernale come quello di Nine... so che la sovrascrittura non è ancora completa, ma quando lo sarà, la personalità di Neith Miller svanirà completamente, lasciando spazio a quel mostro -
    Sulle labbra della donna si fece largo un piccolo sorriso - E' giusto... per arrivare qui ho ucciso delle persone... -
    - Non se la prenda con noi, la prego - infilò la mano nella tasca interna della giacca, estraendo una pistola - Lo stiamo facendo per il bene dell'informatica... -
    Neith diede le spalle alla canna dell'arma, volgendo lo sguardo al panorama disastrato che si estendeva lungo tutta la superficie cittadina. Pensò che avrebbe voluto sentire, per un ultima volta, la voce di Evan.
    La sicura venne tolta.
    - Mr. Mallard, mi dica una cosa... - fece Neith, con encomiabile calma - Un'esistenza dedicata all'odio... ha diritto di definirsi tale? -
    Non ci fu nessuna risposta, solo lo scoppio di un proiettile, e il rumore del velivolo che si allontanava nel grigio cielo pomeridiano.
    Il corpo di Neith Miller rimase disteso sul pavimento dell'eliporto, in un'espressione di beatitudine.
    E più tardi scese la pioggia, lavando via il sangue dal suo corpo consumato.


    Fine.


    Nyxenhaal89
    Titolo: Lo Spirito della Città
    Fandom: Original, Sovrannaturale
    Rating: V - G
    Warning: //
    Pairing: //

    Dedico questa fanfiction* a _Holy. I love you, my baguette :heart:

    Era una sera tranquilla, quella in cui camminava in quel momento. Erano quasi le dieci di sera, orario abituale per lui che solitamente rincasava anche più tardi. Era appena uscito da un pesante allenamento in palestra, come ogni giovedì, e nel percorso del ritorno approfittò come di consueto dell'aria fresca che soffiava dal mare, passeggiando distrattamente per la strada che lo costeggiava in direzione del condominio dove abitava. Non passava giorno che non ringraziasse la sua fortuna per aver trovato un'abitazione con una così bella vista (dopotutto, lui adorava il mare) a un prezzo così basso. I soldi erano di norma sufficienti e avanzavano, così li usava per coltivare un po' il fisico. L'ultima donna con cui aveva stretto una relazione, finita un paio di mesi prima, gli aveva detto che stava mettendo su parecchia pancia, scandalizzandolo pesantemente: era sempre stato piuttosto fiero del suo corpo e scoprire di essere diventato flaccido a nemmeno trent'anni non era proprio il genere di cose che uno come lui amasse sapere. Dopo comunque un paio di mesi di palestra e una dieta migliorata era riuscito a rimettersi un pochino in forma, quanto bastava per guardarsi allo specchio senza il desiderio di sputarsi addosso.
    Era un uomo semplice, senza vizi: aveva solo fumato un po' d'erba ai tempi dell'università, più per stare col gruppo che per un vero desiderio. Non beveva, non fumava, non sniffava né si bucava, né faceva uso di integratori e farmaci come purtroppo facevano, invece, molti dei suoi compagni di palestra. Avevano provato diverse volte a convincerlo a fare altrettanto ma lui rifiutava sempre. Preferiva, diceva, farcela con le sue forze e non superare i suoi limiti. Non voleva mica diventare uno di quegli uomini-palloncino dei concorsi di body building, voleva solo ridarsi un tono.
    Ciondolando per la strada con il borsone in mano, arrivò finalmente al condominio: era uno dei più bassi, proprio accanto ad un altro che aveva almeno una decina di piani in più, ed era di una specie di orribile color mattone che stonava assurdamente con gli altri, colorati vivacemente di bianco e giallo, quasi un pugno in un occhio nei giorni estivi. Aprì la robusta porta di ferro e se la richiuse alle spalle, salutando il portiere: quello rispose con un cenno distratto, concentrato sulla partita di basket della sua squadra preferita, e gli indicò le cassette delle lettere.
    Che sorpresa, pensò controllando la propria. C'era una proposta di lavoro in una città raggiungibile in un'oretta di treno, ma dubitava che potesse effettivamente fruttargli un guadagno. La prese per leggerla con calma una volta a casa e si diresse all'ascensore, entrandovi. Una volta dentro, si gettò di peso contro la parete del casermone, chiudendo gli occhi: era una di quelle persone che si rilassavano più in ascensore che in qualunque altro luogo: quella salita di appena una trentina di secondi era come una meditazione, una preparazione.
    Quella sera però i neon dell'ascensore lampeggiavano a intermittenza, con un fastidioso ronzio che gli rese l'opera un po' più complicata del previsto. Dato che abitava al venticinquesimo piano, sperò vivamente che non fosse un qualche problema dell'impianto: poteva esserci un calo di corrente, o forse uno dei cavi si era allentato, o qualcosa di peggio...
    O forse erano solo i suoi numerosi e incorreggibili girotondi mentali che gli distorcevano il senso della realtà, come accadeva spesso. Si voltò verso lo specchio, chiedendosi ancora una volta se ci fosse una telecamera dietro e mettendosi le dita sotto il mento, osservandosi pazientemente. Aveva la barba un po' ispida dopo ben quattro giorni che non la faceva e il viso squadrato piuttosto affaticato e tirato. Si passò stancamente la mano tra i capelli scuri, poco lunghi, sempre poggiato alla parete dell'ascensore con gli azzurrissimi occhi chiusi.
    Il ding dell'ascensore lo risvegliò da quel breve riposo, e uscì diretto alla porta del suo appartamento. Si massaggiò la spalla dolente, resa tale da un allenamento troppo intenso, quindi cercò le chiavi in tasca aprendo poi la porta con una voglia immensa di mettersi a letto e addormentarsi senza nemmeno farsi una doccia. La sua casa era un semplice bivano con una cucina-soggiorno, una camera da letto e un bagno, con un ampio balcone proprio dall'altro lato dell'ingresso. La cucina era in un'alcova rettangolare, il cui ripiano di marmo faceva anche da tavola. Nell'ampia parte adibita a soggiorno stava un divano, con davanti un tavolinetto di vetro e un televisore. La camera da letto era a destra, con il bagno annesso a con due ingressi ad esso. Era una casa piccola e spartana, con giusto qualche quadro.
    Sbadigliando gettò la borsa di lato e come essa toccò terra, un boato fece tremare il pavimento sotto i suoi piedi: improvvisamente la stanchezza gli passò tutta, sostituita dall'adrenalina e dallo spavento. La prima cosa da fare, pensò, era uscire immediatamente dalla porta e scendere di filato per strada, visto che probabilmente c'era un terremoto. Ma mentre metteva la mano sulla maniglia il muro accanto ad essa si incrinò come colpito da qualcosa di rotondo ed enorme: la porta si bloccò all'istante e lui indietreggiò in tutta fretta, incespicando e cadendo di peso sul tavolinetto di vetro del soggiorno. Altre grosse incrinature come quella che l'aveva bloccato in casa si susseguirono con un frastuono assordante per tutto il muro che dava sulla camera da letto e il bagno, bloccandolo di fatto nella parte centrale della casa. Avvertì un istinto, un formicolio improvviso al cervello che gli diceva di levarsi da quella posizione. Era robusto e agile e poteva saltare senza problemi verso l'alcova della cucina, nonostante non comprendesse cosa stesse succedendo. Avrebbe dovuto provare ad abbattere la porta, a fare qualunque cosa per non restare schiacciato o... o qualunque cosa stesse succedendo al suo appartamento.
    Seguì il suo istinto e saltò verso la cucina, nello stesso istante in cui la porta finestra esplodeva in una tempesta di vetro che solo grazie ai vestiti evitò di ferirlo.
    Altre ammaccature si susseguirono lungo il muro e poi, in un fracasso di vetri rotti e legno incrinato, anche quello dietro il televisore fu devastato da una di quelle spaccature concentriche, ancora più grande delle altre: pezzi di vetro e legno volarono per tutta la casa, ma lui rimase nascosto nell'alcova della cucina. Altri rumori, altri muri sfondati, porte e mobili divelti, ma non osava guardare. Si mise nella parte più interna dell'alcova, facendosi il più piccolo possibile e attendendo che finisse tutto. Doveva finire, prima o poi. Cosa stava accadendo? Che fossero i terroristi? Gli Illuminati? Gli alieni?
    Le ipotesi più assurde gli attraversavano rapidamente la testa, ma finché quello sfacelo non terminava c'era ben poco che potesse fare. E poi, perché nessuno interveniva? Che fossero tutti morti, in quel piano?
    La prospettiva di essere solo lo gettò nel panico, come avrebbe potuto difendersi?
    - VATTENE! - disse una voce in modo autoritario, seppur con una tonalità piuttosto bassa e indefinita.
    Sentì una sorta di lamento, lungo e iroso, e poi quello che sembrava il rumore dell'acqua gettata sul pavimento: quello che restava dello scheletro della porta-finestra si ruppe definitivamente e l'aria fredda della sera entrò libera nell'appartamento. Era la stessa brezza che aveva trovato piacevole mentre camminava verso casa, ma in quel momento sembrava più gelida della paura che gli aveva afferrato le viscere.
    Improvvisamente, fu silenzio.

    Strisciò con le mani e il respiro tremante fuori dall'alcova della cucina, preoccupato. Quella specie di attacco terroristico era finito? Oppure avrebbe trovato delle persone ad aspettarlo appena uscito allo scoperto che l'avrebbero crivellato di pallottole?
    L'ultima cosa che si aspettava, era di vedere quello che gli si parò dinanzi agli occhi.
    C'era, nel bel mezzo del suo soggiorno, una persona svenuta. Era piuttosto mingherlina, vestita con semplici abiti bianchi, a piedi nudi e con una lunga e vistosa sciarpa bianca che a prima vista era il doppio della sua altezza. Aveva i capelli castani, non molto lunghi e incredibilmente lisci.
    Fece per avvicinarsi, ma ecco che accadeva un'altra cosa assurda. La sciarpa si sollevò improvvisamente, sibilando come un serpente adirato e facendo per attaccarlo. Pensò che si trattasse di una specie di scherzo: doveva sicuramente essere uno scherzo di pessimo gusto degli altri inquilini, perché quella situazione stava andando davvero sull'inverosimile, se non l'aveva già superato da un bel pezzo. Decise di avvicinarsi ancora, e l'indumento si sfilò dal collo del giovane a terra, menandogli una frustata che lo fece volare urlando contro la porta d'ingresso. Forse stava proteggendo quella persona, ma lui voleva solo aiutarla... e ovviamente capirci qualcosa.
    Ma quella cosa non volle sentire ragioni: affondò verso di lui conficcandosi nella porta, come se il tessuto di cui era fatta fosse duro come l'acciaio. Non gli restava che cercare di strisciare lontano da quella specie di serpente di seta, facendo attenzione a non avvicinarsi troppo al corpo a terra.
    - Uh... - un gemito avvertì che la persona che fino a quel momento era distesa sul suo pavimento si era finalmente svegliata. Il serpente (o presunto tale) strisciò verso di lui, ponendosi a difesa e tenendolo d'occhio. - Bisogna mettere a posto - disse costui alzandosi barcollante, reggendosi alla creatura di tessuto.
    I suoi occhi, di un colore che andava dal grigio fumo all'ambra, individuarono la sua figura sbigottita a terra.
    - Tu puoi vedermi? - domandò stupito. Annuì con la bocca semiaperta. - Devo essermi davvero indebolito... - commentò mentre la sciarpa gli tornava legata dolcemente al collo, nascondendogli il mento. Uno dei lembi, che associò al ruolo di testa, si strusciava contro la sua guancia con fare affettuoso, sotto le carezze della sua mano bianchissima. - Ti chiedo scusa per aver rovinato la tua casa, Nate - disse avvicinandoglisi. Mosse appena la mano e Nate si sentì sollevato in aria, per tornare perfettamente in piedi. Quel ragazzo era talmente basso che gli arrivava al diaframma, eppure non aveva la minima intenzione di sottovalutarlo. Dopotutto gli aveva appena raso al suolo l'appartamento.
    - Chi sei? - domandò Nate teso, preoccupato che quell'essere potesse improvvisamente cambiare idea. - Cosa stavi facendo, e perché mi avevi detto di andarmene? -
    - Non ero rivolto a te - rispose il ragazzo voltandosi e toccando distrattamente le crepe nei muri. - Ma a uno dei Distortori -
    - Distortori? - ripeté lui stringendo un occhio.
    - Il mio nome è Darian - disse lui. - E, per quanto tu possa comprensibilmente non credere alle mie parole, sono lo Spirito della Città -
    - Tu... - Nate scoppiò a ridere, mettendosi le mani in tasca. - Guarda, preferisco che tu confessi di essere un qualche pazzo dinamitardo che mi ha distrutto la casa per sfizio, ma non venire a dirmi che sei una specie di folletto, perché non ti credo -
    - Appunto - sospirò Darian con rassegnazione, poggiando il palmo della mano su una delle ammaccature più grandi: istantaneamente quella parte di muro tornò dritta e immacolata, come prima. Nate strabuzzò gli occhi, stropicciandoseli improvvisamente poco convinto delle sue precedenti parole. - A dire il vero sono uno, Spirito... per città così grandi, uno non basta: ce ne vogliono almeno tre -
    - E... ammesso che sia vero, e non ho mai detto che lo sia- disse Nate con una punta di orgoglio ferito nella voce - cosa fa uno Spirito della Città? -
    - Cerca di preservare l'equilibrio di una città, potremmo dire - rispose vago. - Ogni persona, anche quella armata di migliori intenzioni, è una preda facile per le energie negative che affollano questo mondo - mosse un dito e il televisore, nonostante fosse spaccato a metà, si ricompose trasmettendo il notiziario delle dieci e trenta: il sindaco aveva appena dichiarato che, per preservare la sicurezza dei suoi cittadini, avrebbe posto severe sanzioni sull'immigrazione con tanto di rimpatrio o incarcerazione. - Ciò che dice potrebbe essere giusto, vero? Tu ad esempio, non vedi di buon occhio gli immigrati -
    Nate avrebbe tanto voluto chiedergli come facesse a saperlo, ma si disse che considerato l'individuo sarebbe stata una domanda incredibilmente stupida.
    - Eppure, queste leggi così ferree non faranno che portare disordine. Il sindaco è un brav'uomo, che ha fatto tanti buoni cambiamenti alla città - disse tornando ad accarezzare il serpente. - Ma i suoi ideali sono stati cambiati. Distorti, appunto, da creature che noi chiamiamo i Distortori -
    - Sono come te, ma neri? - ipotizzò pensando che fosse perfettamente lecito.
    - Dipende - comprese Darian con un mezzo sorriso. - Ma fanno tutti più o meno la stessa cosa. Cercano di sbilanciare l'equilibrio che portiamo, di mettere il caos nella società -
    - Vuoi dire che noi umani siamo vostri fantocci, dunque? - fu la domanda di Nate, che più di ogni altra cosa detestava l'idea che gli esseri umani fossero vittime di destini e forze superiori.
    - No, affatto - negò Darian. - Ogni essere umano può fare quello che vuole della sua vita. I Distortori si limitano a dare una piccola spinta verso il lato più marcio di una persona - pose un dito sul divano, che si ricompose velocemente. - Quando un uomo irrompe nella follia, ti sei mai chiesto cosa possa essere il fattore scatenante? -
    - Lo sai già - rispose Nate sedendosi sul divano appena riparato e spegnendo il televisore.
    - E so che non mi credi, ma il mio compito non è certo convincerti - disse lo "spirito" misurando la camera a grandi passi. - Quello che voglio dire, è che spesso capita che siano i Distortori a causare la follia umana. Come un marito che improvvisamente uccide moglie e figli, o un uomo perfettamente tranquillo che fa una strage. I Distortori entrano nell'animo incrinato di una persona e cercano di ripararne le crepe, ma con il loro veleno - spiegò più come promemoria. - Il sindaco ha perso di recente la figlia, violentata e uccisa da un gruppo di immigrati ubriachi. Il Distortore che ho eliminato poco fa aveva già contaminato il suo animo - aggiunse con un sospiro. Mentre parlava e girava per la stanza, tutto tornava com'era prima, pulito, ordinato e integro.
    - Quindi tu combatti queste cose - disse con un braccio poggiato sullo schienale.
    - Rare volte li elimino. Io devo principalmente scacciarli - alzò una mano col palmo ben teso, comprendendo la sua prossima domanda. - Sono il male necessario - disse grave. - Il punto nero nel bianco dello Yang. La loro esistenza è parte integrante del tutto, non possono essere sconfitti davvero. Solo cacciati -
    Nate era comunque scettico. La conversazione di per sé gli sembrava presa da qualche film sovrannaturale di terz'ordine che prendeva da Blockbuster il sabato, ma una parte del suo cuore era spinta a credergli, anche se poco. Tuttavia, non riusciva bene a capire il motivo di un simile discorso.
    - Perché mi dici queste cose? Immagino non dovrei saperle - chiese sospettoso. Se si aspettava che diventasse uno di quei Cosi della Città, si sbagliava di grosso.
    - Dovevo passare il tempo mentre recuperavo le forze - rispose Darian improvvisamente davanti a lui. Nate sentì la sua mano gelida porglisi sulla fronte, mentre lo Spirito della Città sorrideva. - E' stato bello parlare con te. Sei una persona normale - disse come se stesse facendo un importante complimento, che Nate non riuscì ad afferrare.
    - Che stai...? - farfugliò sentendosi improvvisamente pesante.
    - Forse, alla tua morte, diventerai anche tu uno di noi - ipotizzò Darian. - Ma fino ad allora, è meglio che tu non sappia nulla. Coloro che sanno di noi sono prede facili per i Distortori -
    - Va bene... - disse Nate malinconico e stanco al tempo stesso. - Lo capisco -
    - No, non è vero - sbuffò lo Spirito, allegro. - Buonanotte, Nate -


    Era mattina. La casa era gelida, e la porta-finestra era aperta: il televisore era acceso.
    Nate imprecò, alzandosi indolenzito dal divano e tenendosi la testa con le mani. Aveva fatto un sogno assurdo, in cui vedeva una ragazzina (o ragazzino, non riusciva a capirlo) tuffarsi dal suo balcone per poi volare via, utilizzando un'enorme sciarpa sibilante come un paio d'ali. Ma il sogno sbiadì dalla sua mente così in fretta che non riuscì più a ricordare nessun particolare.
    - Bravo, idiota - si rimproverò chiudendo la porta-finestra con le spalle e il collo in preda ai dolori. - Così impari a non dormire nel tuo cazzo di letto... - grugnì. Dopo aver fatto un po' di stretching per rilassare un minimo i muscoli intorpiditi, si diede una lavata veloce e si vestì.
    Era venerdì, e doveva fare l'inventario al negozio dove lavorava.


    Skywards
    Titolo: Il primo giorno di primavera in autunno
    Rating: O
    Warning: adolescenza, distruzione, sesso, piromania
    Wordcounter: 990

    “Ognuno è irrimediabilmente la solitudine di tutti gli altri”.

    Scrissi questo, con un pennarello bianco, sul bordo dello scivolo al parchetto.
    Alice mi guardava al di sotto della sua frangia fucsia. Aveva quello sguardo da ranocchietta che tanto mi piaceva quanto mi faceva dannare perché rendeva incomprensibile qualsiasi cosa le passasse per la testa. Se ne stava seduta su una panchina mezza scassata a leggere un libro al quale, come era solita fare, aveva strappato la copertina.
    Così nessuno può sapere cosa sto leggendo, si giustificò la prima volta che glielo vidi fare.
    Riposi il pennarello nel taschino del mio cappotto grigio, quello lungo fino alle ginocchia, che forse mi stava troppo largo ma che mi piaceva al punto che l’avrei tenuto addosso anche sotto la doccia se solo non si fosse rovinato. Poi raggiunsi Alice, mi sedetti a terra e mi appoggiai alla sua gamba.
    Ti si sporca il cappotto così, mi disse lei.
    Non fa niente, non ci tengo poi così tanto, mentii. Cosa leggi?
    Un libro di Fabio Volo che mi hanno regalato. Non so nemmeno qual è. Gli ho strappato la copertina non appena ho letto l’autore, mi è venuto proprio spontaneo. Poi ho deciso che avrei potuto dargli una possibilità.
    E…?
    Penso che gli darò la possibilità di farsi un bel viaggio nella discarica.
    Ridacchiai e mi accesi una sigaretta.
    Andiamo via?
    Finisco di ingoiare il mio vomito e mi alzo.
    Lei era sempre così. Cattivissima, spietata, demoliva qualsiasi cosa, qualsiasi, anche ciò che le piaceva, persino se stessa. Ma adoravo la sua compagnia perché era divertente e non si prendeva mai troppo sul serio.
    Una volta era uscita di casa in pantofole. Era vestita di tutto punto e aveva le pantofole ai piedi. Disse che quel giorno le andava così. Al ritorno poi dovette buttarle perché si erano tutte rovinate e disse: volevo che il loro ultimo giorno fosse speciale, volevo che vedessero com’è fuori. Risposi che non sarebbe stato il loro ultimo giorno se non ci avesse camminato per tutta la città. E lei ribatté: tu preferiresti invecchiare in casa senza mai uscire o morire giovane dopo aver girato per il mondo?
    Mi parve una stronzata ma la sola cosa che mi venne da dire fu che io non ero una pantofola.
    Giunti nei pressi di casa sua mi chiese: cosa vorresti fare ora?
    Risposi: esplodere.
    Esplodere in che senso? Come fa un petardo o come fa una casalinga repressa dallo psicologo?
    Risposi: esplodere come il primo giorno di primavera.
    Ma è ancora autunno, osservò lei.
    Lo so.
    Silenzio.
    Vieni da me, mormorò lei.
    Va bene.
    Salimmo a casa sua. Come al solito, era vuota e in disordine. Sua madre non c’era mai. Suo padre non c’era mai stato. Suo fratello era partito per la leva militare. Alice viveva praticamente da sola, assieme a un canarino che aveva chiamato Paraplegico perché aveva un’ala spezzata.
    Ci infilammo subito in camera sua. Era solita abbinare il colore delle lenzuola a quello della frangia del momento, quindi erano fucsia. Lanciò la borsa in un angolo polveroso della stanza e mi baciò, senza perdere tempo.
    Alice era una ragazza promiscua. Sapevo di tutti i suoi scopamici, alcuni li conoscevo pure, con alcuni ci avevo fatto cosacce pure io, anche contemporaneamente.
    Pensai: sto baciando labbra che hanno baciato altre mille labbra. Pensai: sto baciando quelle mille labbra tutte insieme, in questo momento. Pensai: sono una puttana, mezza frocia e mezza perduta.
    Ci spogliammo con cura maniacale, lentamente, perché lei sapeva che mi piaceva così: l’attesa accresceva le mie voglie segrete e abbassava le mie difese, mi rendeva inerte, vittima di impulsi che lei dirigeva con maestria con le sue mani d’oro.
    Sei come un bambino che aspetta tutto il giorno di andare in edicola a comprare le figurine, cerca con foga quelle che gli mancano per finire l’album ma è più contento quando non le trova, perché così l’indomani può andare a comprarle di nuovo.
    Una volta Alice mi disse così, dopo che avevamo fatto sesso, mentre si pettinava la frangia blu. Le dissi che forse la figurina che stavo cercando era quella con la mia faccia.
    Non l’avevo ancora trovata.
    Appena prima che mi sfilasse le mutande la fermai. Dissi che non avevo voglia di andare fino in fondo. Lei, impassibile, alzò le spalle e si rivestì. Mi rivestii anch’io e mi stesi sul suo letto, mentre lei recuperò dalla borsa il libro di Fabio Volo. Prese a strapparne qualche pagina per farne degli origami.
    Credi che un giorno ci ricorderemo di questo pomeriggio?, le domandai.
    Mmh, rifletté, a meno che non diamo fuoco alla casa, temo di no.
    Silenzio.
    Poi mi guardò, con i suoi occhioni gracidanti, per tipo dieci secondi, e senza dire nulla dispose i suoi origami ai piedi del letto, accanto a me. Prese un accendino e prima ancora che lo usasse sapevo che non avrei potuto fare nulla per fermarla.
    In pochi istanti, le fiamme si propagarono dagli origami alle lenzuola e dovetti premermi contro una parete della stanza per non essere coinvolto nell’incendio. Nessuno dei due disse niente per un po’, mentre osservavamo ipnotizzati quella danza divoratrice. Poi sussurrai: ecco. È così che voglio esplodere.
    Quando il calore divenne insopportabile uscimmo di corsa dalla camera, Alice afferrò la gabbia di Paraplegico e sgattaiolammo fuori come due ladruncoli o due ragazzini che avevano appena fatto una delle loro marachelle. Suonò l’allarme antincendio e la sentii ridacchiare mentre scendevamo le scale, e quando finalmente fummo all’aria aperta, mezzi affannati, seguiti dagli altri condomini che erano usciti nel panico, mi disse: ora ce ne ricorderemo per sempre.
    Un denso fumo nero fuoriusciva dalla finestra della sua camera assieme ai riflessi incandescenti delle fiamme, e in mezzo a quel bailamme io e Alice ci baciammo. Paraplegico cinguettava confuso, saltellando da un lato della gabbia all’altro, e nelle nostre teste marce la sola preoccupazione fu che quel meraviglioso caos, quella magnifica vertigine, non sarebbero purtroppo durati a lungo.


    Roxy!
    Titolo: Neèverlewòed
    Rating: Arancione
    Di cosa parla: minestrone di fiabe. Fantasy.
    Wordcounter: 1875 SCUSATEMI ;_____;


    Il bambino deglutì con gli occhi pieni di terrore dinanzi alla grande e ombrosa foresta che si stagliava sotto la montagna.
    Mosse qualche passo in avanti, la neve che scrocchiava sotto il suo peso leggiadro, intatta fino al suo arrivo. Non c'era nessuno intorno a lui, l'ultima traccia di umanità era svanita dopo il cancello dell'ultimo villaggio.
    Credette di sentire un gemito cupo, provenire dall'interno dell'estesa massa nera. Gli vennero i brividi.
    La Neèverlewòed, la Foresta della Neve Eterna, era considerata da tutto il regno la patria di streghe, geni malvagi e lupi famelici.
    Non era un posto su cui rimanere a lungo, ma era l'unica connessione fra le due piccole città.
    Heikki non perse tempo a poggiare sulla neve la sua sacca gonfia di provviste per il ritorno ed attuare uno dei gesti di buon augurio, come gli era stato imposto prima di lasciare la casa della nonna.
    Strizzò un occhio e saltellò per tre volte sul posto con un piede solo.
    < Occhio curioso, gamba svelta. Che i buoni spiriti mi aiutino a trovare l'uscita in tutta fretta. >
    Qualche passo incerto più in là, Heikki s'addentrò nelle fauci della foresta, accompagnato soltanto dal gelo invernale e dal sibilo del vento.



    Maerion scostò la tenda della casetta di legno per la medesima volta, quel giorno.
    L'angoscia aveva fatto spazio alla disperazione.
    < Se continui a guardare fuori per ogni minumo rumore, finiresti per impazzire! >
    La giovane donna non percepì neanche le parole del marito, seduto su una poltrona a sbevazzare rumorosamente (tra un rutto e l'altro).
    Quante volte si era apprestata alla finestra, quante si era svegliata nel cuore della notte, in quei cinque giorni?
    Se avesse avuto altre lacrime, avrebbe pianto in quel preciso istante.
    Guardò fuori un'ultima volta: solo il bianco della neve e il nero della foresta lontana.
    Con voce tremolante, la madre di Heikki sussurrò all'aria: < Sarebbe dovuto ritornare in un giorno e mezzo... che cosa gli è capitato? >
    Il marito, il rude e panciuto Groderik, sentendo ciò, si mise a gracchiare: < Donna, che cosa stai dicendo? Quel nanerottolo ha attraversato la foresta nera per consegnare i medicinali a tua madre anche un anno fa! Conosce la strada sicura. >
    Maerion non era del tutto sicura delle rassicurazioni dell'uomo, quest'ultimo aveva sempre guardato con un certo disprezzo Heikki.
    Il figlio nato da uomo che ormai era morto da molti anni, scomparso in una spedizione sulla montagna.
    Nonostante tutto però, Groderik non aveva mai alzato le sue nodose e grandi mani contro il figliastro.
    La casa era piccola, nessuno dei due adulti avrebbe voluto discutere davanti agli occhi della piccola Rosalba.
    "Un momento..."
    I pensieri della madre si fermarono un istante, come il suo cuore.
    < E se...? >
    Dopotutto, Rosalba era sveglia come il fratello, aveva nove anni e sapeva correre molto veloce.
    Si morse il labbro e strinse forte i pugni sul davanzale scheggiato della finestra, poi fissò il proprio riflesso sul vetro.
    C'era molta amarezza e paura in volto; il pensiero di non rivedere più il suo adorato primogenito la terrorizzava più che mai.
    " I bambini... sono sempre stati loro a fare da tramite ai due villaggi... Soltano i puri di anima hanno il permesso di passare attraverso la foresta. "
    Anche se non era una certezza, uscirne vivi...
    Sconsolata come non mai, Maerion si avvicinò alla poltrona dismessa vicino al marito, sprofondando nei cupi abissi della sua mente.

    La temperatura all'interno della foresta era stranamente più alta che all'esterno di essa.
    Gli alberi sembravano sussurrare antichi anatemi, gli animali scattanti del sottobosco facevano rabbrividire Heikki.
    E la neve all'interno della vegetazione dava un'atmosfera quasi onirica.
    Ormai aveva capito da molto di aver perso la strada... stava girando in tondo?
    Non avrebbe mai più rivisto il cielo e la sua famiglia?
    Gliel'avevano detto di non dar ascolto agli stregatti, esseri eterei che confondono i viandanti.
    Perchè gli aveva dato retta?
    " Per di qua cucciolo d'uomo! Farai più veloce ad uscirne!"
    Strinse i pugni dalla frustrazione.
    Le provviste erano finite da un giorno, la pancia era vuota e gli occhi infossati per la continua penombra.
    Aveva avuto fortuna a non essere visto da nessuno di quei mostri: forse quello scongiuro che aveva pronunciato quasi una settimana prima era servito a qualocosa.
    < Ho fame... > gracchiò il ragazzino, con la gola secca.
    Gli scivolò di nuovo la sacca vuota dalla spalla, decise di lasciarla lì sull'erba ricoperta di brina.
    Aveva avuto molta forza di volontà a non staccare quelle mele dall'aspetto invitante, così rosse e fragranti...
    La nonna era stata molto specifica al riguardo.
    " Mele rosse e foreste incantate non vanno mai d'accordo, tesoro. Non guardarle con occhi famelici, sono mortali."
    Heikki scosse la testa come per risvegliarsi dal torpore della fame.
    Le lacrime si cristallizzarono non appena fuoriuscirono dagli occhi azzurri del piccolo.
    I piedi strascicarono sulla brina per qualche decina di metro, svoltò qualche tronco gigantesco, si spaventò quando udì l'eco di versi striduli in lontananza.
    E poi trasalì.
    Heikki vide una modesta casa a forma di limone, gialla e con due finestrelle piccole e dalle imposte nere, come se fossero due occhi che fissavano la foresta.
    Aprì la bocca per dire qualcosa, poi la richiuse e si mise a correre in direzione della costruzione insolita.

    Rosalba fu svegliata da un sogno spiacevole, era rinchiusa in una torre a filare paglia per un goblin malvagio.
    < Tesoro, tesoro svegliati! >
    La madre la stava frettolosamente ridestando dal sonno, ella tremava per la paura che il marito si svegliasse.
    < Mamma... >
    < Rosa, ascoltami! Devi raggiungere tuo fratello nella Neèverlewòed! Senza l'aiuto di un bambino morirà lì dentro! >
    La fanciulla si stranì da quella rischiesta inattesa, ma era vero che Heikki mancava anche a lei.
    Risoluta, scese dal letto e seguì a passi felpati Maerion fino alla cucina, la stanza più lontana dalla quale Groderik dormiva alla grande.
    La madre teneva un indumento cremisi, sembrava un mantello.
    < Dovrai metterti questo manto, ti sarà d'aiuto contro ogni creatura malevola. Ah, se gliel'avessi dato a Heikki... che sciocca sono stata! >
    Rosalba indossò il mantello rosso come il tramonto e se lo annodò al collo, poi si fece dare un grande cestino per le provviste.
    < Non c'è solo pane e formaggio, Rosalba... >
    Maerion aprì la porta di legno della casa, un vento freddo e qualche fiocco di neve entrò nella piccola casa.
    Rosalba tremò più per l'eccitazione che per la bassa temperatura; dopodichè si abbassò il cappuccio rosso fin quasi all'altezza degli occhi verdissimi e dopo un affettuoso bacio alla madre, parì alla ricerca del fratello.

    La porta arancione si aprì con un brutto cigolìo, quasi a indicare la presenza di un estraneo nell'abitacolo.
    < C'è nessuno? > chiese titubante Heikki, sopraffatto dall'odore di frutta che permeava lì dentro.
    Sbirciò dentro la casa a forma limone: alla parete opposta stava un grosso spremiagrumi metallico, una pozza di liquido gialla stagnava sotto di esso: forse era proprio quello a dare il buon odore di frutta alla casa.
    Più vicino stava un grande tavolo di legno, sopra cui stava un vassoio ricolmo di ananas, papaie, banane, arancie, pesche, limoni... sopratutto limoni.
    Con l'acquolina in bocca, Heikki si avventò al tavolo della frutta, vedendo che non c'era traccia di mele avvelenate.
    < ALT! > una voce roca apparsa nell'ombra fece cadere al bambino una grossa papaia dalle sue mani.
    Non aveva fatto in tempo a mettere niente sotto i denti.
    < Cosa ci fai nella mia dimora, ladro! >
    Piccola.
    Rugosa.
    Brutta.
    Vestita di stracci.
    Nel bel mezzo della Neèverlewòed...
    Nella testa di Heikki il campanello d'allarme suonava all'impazzata, i muscoli gli si pietrificarono.
    Era una strega silvana!

    Forse Rosalba era dentro la foresta da un giorno, si era fatta guidare dal suo innato senso dell'orientamento, (si chiese per quale motivo i suoi genitori non avessero mandato lei dalla nonna...) quando riuscì ad acchiappare un piccolo stregatto.
    < Hai visto un bambino più o meno simile a me? >
    Il gatto violaceo si dimenò, poi sparì nel nulla.
    Si sentì solo un eco impercettibile: "E' andato nella dimora della Strega Limona!"
    "Segui l'odore!"
    < Segui l'odore? Non sono mica un maiale da tartufo! >
    Ma non appena finì di parlare, qualcosa cadde dal cielo.
    Rosalba vide davanti ai suoi occhi un sorriso a cinquantasei denti, svanire dopo qualche secondo.
    Sulla neve era caduta una piccola boccetta con un nastro blu che legava un bigliettino su cui c'era scritto: "Cappuccetto Rosso Inverso"
    < Hei! > gridò la bambina, allibita: < Ma è un mio soprannome! >
    "Mezza dose la strada avrai... tutta la bottiglietta l'incanto del tuo Inverso sarai..."
    La bambina ammantata di rosso afferrò nella neve intatta il piccolo contenitore di vetro, titubante.
    Lo stappò e annusò il liquido trasparente, era inodore.
    Ne bevve un sorso...
    Tossì un paio di volte...
    E "vide" l'odore di Heikki sfilare tra gli alberi come una scia argentata e brillante.
    Seguì frettolosamente l'odore del fratello, che le ricordava sempre l'erba fresca e il sapone da bucato.

    Gli occhi conturbati dalla cataratta della vecchia scrutarono per un eternità Heikki, il quale aveva smesso di rimanere impalato al tavolo.
    Ora stava semplicemente tremando dal terrore.
    Che cosa facevano le vecchie streghe ai bambini?
    Li mangiavano!
    < Chi ti ha dato il permesso di entrare in casa mia e prendere i miei frutti! >
    Il bambino farfugliò qualcosa d'incomprensibile.
    < Allora? > ribattè la strega.
    < Non sai quanti bambini sono passati prima di te! Tutti affamati e senza pretese! >
    La vecchia nel parlare dalla bocca sdentata sputava contro la faccia di Heikki, impietrito da tanta foga.
    < Io ci lavoro con questi frutti! Secondo te chi è che produce le bibite del regno? La fata Turchina? Biancaneve? >
    < Ma cos...? >
    La strega prese un grosso limone e con maestria lo lanciò fino allo spremiagrumi gigante.
    Si sentì un rumore di qualcosa che veniva schiacciato.
    < Tutte queste storie delle streghe malvagie, solo una storia vecchia come il mondo per lasciarci stare in pace! Siamo solo lavoratrici a cui piace il silenzio della Foresta! >
    Il bambino era senza parole, non era carnivora?
    Non era in pericolo di vita?
    < Ma allora le mele avvelenate e tutte quelle dicerie sono false? > chiese con un filo di voce.
    La vecchia alzò gli occhi al soffitto sporco.
    < Ma è ovvio! Altrimenti tutti a rubare i miei preziosi frutti! Solo qui crescono i limoni più fragranti e le banane più dolci! >
    < Aspettami qui, dovrei tenere una mappa di come uscire da questa giungla... >
    Le gambe scheletriche dell'anziana donna fecero in tempo a girarsi che si sentì un urlo di una bambina.
    < HEIKKI!! SCAPPA!! >
    Rosalba, rossa in viso tanto quanto il suo mantello, entrò nella casa a forma di limone e senza aggiungere altro bevve il secondo sorso dalla bottiglietta.
    Sentì lo stomaco gorgogliare.
    Si mise le mani allo stomaco, facendo cadere il suo cestino.
    Cappucce Rosso ora era per terra, con la mantellina cremisi stesa su di lei.
    < Rosalba! Cosa stai facendo? > esclamò spaventato il fratello maggiore.
    Sotto il rosso qualcosa si stava mutando...
    Artigli aguzzi fecero capolino sotto il mantello, un tetro ululare si levò dalla casa gialla, facendo scappare tutti i volatili nel raggio di chilometri.
    Rosalba si era trasformata in un lupo feroce.
    L'animale si avventò prima sulla vecchia, tramortendola all'istante, poi sul fratello, conficcandogli le zanne al collo.
    Dalla lotta fra i due, il vassoio ondeggiò dal tavolo, facendo sparpagliare tutta la frutta.
    Sangue e succo di ananas sgorgarono in quella casa.

    Morale della favola?
    Mai fidarsi degli stregatti.


    Balm Mark
    Titolo: Endless Nightmare
    Rating: O
    Warning: violenza e leggero splatter.
    Wordcounter: 1726

    Guardai di fronte a me: non c'era nessuna speranza. I miei muscoli non rispondevano ai comandi, non riuscivo a muovermi di un passo. Ero bloccato lì, e davanti a me la morte mi fissava sogghignando, pregustando il momento nel quale avrebbe potuto assaggiare la mia carne. Chiusi gli occhi, sperando che qualcuno mi venisse a salvare.
    Aprii gli occhi e mi svegliai di soprassalto. Era ancora notte fonda e la debole luce della luna piena illuminava leggermente la mia stanza, rendendola visibile. Provavo una strana inquietudine, ma anche del sollievo, come se fossi uscito indenne da una situazione terrificante. Ma ancora una volta non riuscivo a ricordare, e avevo l'impressione di aver fatto di nuovo lo stesso sogno che mi perseguitava ormai da settimane. Provai a riportare alla mente il mio incubo ma, visti i risultati negativi, dopo essermi tranquillizzato decisi di ritornare a dormire.
    Il mattino arrivò in fretta e mi risvegliai con mia madre che mi trascinava giù dal letto, urlandomi di sbrigarmi per non tardare a scuola. Così mi preparai di corsa, consumai la mia colazione, presi il mio iPod e uscii da casa. Da quando ero nato vivevo in un piccolo paese di montagna, che anche in primavera era molto freddo e cupo, grigio e triste. Abitavo in una traversa della via principale del paese, in una villa abbastanza antica che i miei amici cercavano sempre di evitare, trovandola spaventosa. Io ormai ci avevo fatto l'abitudine, e rimanevo impassibile a ogni cigolio di vecchie porte o al rumore di piccoli passi, causati dai topi che non si decidevano ad andar via dalla nostra cantina. Da quando mio padre ci aveva lasciati mi ero dovuto far forza, per me e per mia madre, perché non avrei mai voluto vederla soffrire così tanto di nuovo, non potevo certo spaventarmi di fronte a simili stupidaggini.
    Come ogni giorno mi dirigevo verso la scuola con le cuffie nelle orecchie, passeggiando lentamente per la larga strada principale, mentre i piccoli negozi di prodotti tipici cominciavano ad aprire e i vecchi si radunavano ai tavoli dei bar. Negli ultimi anni l'intero paese era stato rinnovato e molti vecchi luoghi che avevo tanto amato erano stati abbattuti e sostituiti da edifici di aziende multinazionali: la vista di questo cambiamento radicale della via che ero da sempre stato abituato a vedere mi intristiva, avevano completamente distrutto il passato. Il liceo che frequentavo si trovava poco più avanti di casa mia.
    Arrivai a scuola appena in tempo per udire il suono della campana, così mi recai di corsa in classe e presi posto, come al solito, vicino al mio migliore amico, Alex. Ci eravamo conosciuti all'inizio delle scuole medie: io non ero mai stato un tipo socievole e difficilmente facevo amicizia con qualcuno, ma lui, al contrario di tutti gli altri nostri compagni, mi aveva rivolto la parola e si era aperto in breve tempo. "Perché stai con quello sfigato?" gli avevano chiesto in tanti, e lui aveva sempre risposto che io ero la persona migliore che avesse mai conosciuto. Alex era così, non gli importava di quello che dicevano gli altri, faceva sempre tutto quello che voleva. Senza che neanche me ne accorgessi era diventato il mio migliore amico.
    <<allora, mi è venuta un'idea grandiosa!>> esclamò eccitato.
    <<non dirmi che è una delle tue solite idiozie, Alex.>>
    <<no, assolutamente no! Ora stai un attimo zitto e fammi parlare, prima che arrivi la prof. Stavo pensando da ieri che io in tutti questi anni non sono mai stato a casa tua! È assurdo, no? Ma mi sono deciso, devo superare le mie assurde fobie, è solo una vecchia casa, niente di terribile. Quindi io oggi verrò a casa tua e tu me la mostrerai da cima a fondo, senza tralasciare nessuna stanza. Sarà grandioso!>>
    <<ehm, veramen...>>
    <<niente scuse!>> disse senza neanche darmi la possibilità di finire la frase.
    Le noiose ore scolastiche passarono lentamente e io e Alex, dopo un pranzo veloce, ci dirigemmo verso casa mia.
    <<sono così eccitato! Non vedo l'ora!>>
    Arrivammo dopo qualche minuto e la sola visione della casa fece rabbrividire Alex: sembrava un piccolo castello a tre piani, con un enorme terrazzo sul tetto. Io e mia madre avevamo le camere da letto e i bagni al secondo piano, mentre al primo c'erano, oltre l'atrio, la sala da pranzo, la cucina e una grande stanza che sembra che un tempo fosse adibita a sala musicale, ma purtroppo i vecchi strumenti erano andati perduti. Il terzo piano era quasi inutilizzato, lì tenevamo tutti i vecchi oggetti lasciati dai precedenti proprietari. Non sapevo quanti anni avesse la costruzione, ma di certo era molto strano che stesse ancora in piedi in mezzo a una città in piena fase di sviluppo. Quasi tutti i segni del passato erano stati cancellati in quel paese di montagna, ma la mia vecchia villa era ancora lì: nessuno si era mai preso la briga di ristrutturarla, eppure non c'era il minimo danno.
    Sembrava quasi che la casa si mantenesse da sola, noncurante dell'impietoso scorrere del tempo. Forse se avessi notato tutte queste stranezze, se avessi indagato sul passato di quella villa e se avessi detto tutto a mia madre, non avrei mai affrontato il segreto nascosto lì dentro.
    Notammo subito qualcosa di strano appena entrati nell'atrio: uno strano tanfo di marcio invadeva la sala, rendendo l'aria irrespirabile. Nonostante l'ambiente fosse molto grande, quella puzza insopportabile si era sparsa per l'intera stanza. Così, evitando di parlare per non rischiare di respirare quell'aria fetida, io e Alex perlustrammo tutto il primo piano alla ricerca di mia madre. Mentre stavamo correndo verso la cucina, scorsi con la coda dell'occhio qualcosa di strano nelle scale: era sangue. Attirai subito l'attenzione di Alex, invitandolo a seguirmi.
    Non dovevo avere paura, dovevo mantenere la calma. Convincendomi che probabilmente mi stavo sbagliando, salii lentamente le scale con Alex dietro di me, che fissava terrorizzato le macchie di sangue. Gli leggevo negli occhi che avrebbe preferito andar via, ma non voleva lasciarmi da solo, lui non mi avrebbe mai abbandonato. Via via che salivamo le scale, la puzza si faceva sempre più intensa e il colore del sangue incrostato appariva sempre più nitido.
    Quando trovai la fonte di quell'odore insopportabile, non riuscii a mantenere la calma: oltre la prima rampa di scale c'era un ammasso di cadaveri di topi mutilati, ricoperti da un misto di sangue e organi interni. Alex si voltò e vomitò giù dalle scale. Io rimasi impietrito a fissare quell'orribile scempio. Chi avrebbe mai potuto fare qualcosa di simile? Ma il pensiero che l'artefice di quello spettacolo stomachevole potesse trovarsi ancora a casa mia mi fece tornare in me, e di corsa salii al secondo piano alla ricerca di mia madre, temendo il peggio.
    <<mamma! Dove sei?!>>
    Continuai a chiamare mia madre più forte che potevo, cercandola per tutto il secondo piano: guardai in ogni stanza, ma lei non era lì. Avevo perso di vista Alex e pensai che per paura fosse fuggito via.
    Poi, improvvisamente, la mia ricerca venne interrotta da uno strano rumore proveniente dal piano di sopra. Una risata. Ritornai alla scalinata principale per raggiungere la fonte di quel suono, e lì ritrovai Alex, tremante, con gli occhi bagnati di lacrime di terrore. Ci guardammo negli occhi, per rassicurarci, per prepararci ad affrontare qualunque cosa si trovasse al piano di sopra. Sentivo i forti battiti del mio cuore, e anche quelli di Alex, che acceleravano a ogni scalino risalito. Ci ritrovammo infine di fronte alla porta che conduceva nella grande stanza polverosa.
    Aprii lentamente la porta cigolante che ci introdusse nella camera, con Alex dietro di me. Quando alzai lo sguardo tirai un lungo sospiro di sollievo: seduta su uno dei tanti scatoloni c’era mia madre, che ci dava le spalle.
    <<mamma, allora eri qui! Ti abbiamo cercata per tutta la casa. Ma che cosa è successo nelle scale?>>
    <<ah, quindi tu sei suo figlio…>>
    La sua voce sembrava completamente diversa: era rauca e cupa, quasi fosse quella di un vecchio. Alex la fissava sconvolto.
    <<di che parli? Sono io…>>
    In quel momento notai che la donna seduta su quello scatolone stringeva in mano un topo malridotto, che provava a divincolarsi da quella morsa mortale. Realizzai che quella non era mia madre quando voltò la testa, mostrandoci il suo viso bianco cadaverico, senza naso, con un enorme sorriso giallo sdentato. Portò alla bocca il roditore e gli staccò la testa, divorandola in un unico boccone. Mi stava scrutando dai suoi occhi vitrei, dai quali scendevano copiose lacrime di sangue.
    Non ebbi neanche il tempo di pensare a cosa fare: con un enorme balzo, quell’essere si era gettato su Alex, addentandogli il volto. Lo sentii urlare dal dolore, mentre quella bestia gli strappava via la carne, saziandosi.
    Fuggii via, senza curarmi più del mio amico, la mia lucidità mi aveva abbandonato. Spinto dal solo istinto di sopravvivenza, mi catapultai giù dalle scale, cercando di raggiungere l’uscita. Evitai con un balzo quel raccapricciante mucchio di corpi, discesi di corsa l’ultima rampa di scale, e giunsi ansimante nell’atrio. Immediatamente andai verso l’ingresso. Spinsi verso il basso la maniglia: nulla. Era chiuso.
    Scoppiai in un pianto di disperazione, mi abbandonai sulle ginocchia e cominciai a sbattere i pugni contro la porta, chiamando aiuto.
    Udii il suono di un pianoforte provenire dalla sala musicale. Non conoscevo il nome di quella melodia, ma ero certo di averla già sentita da qualche parte da bambino.


    Quando entrai nella sala musicale, mio padre era lì, sdraiato per terra, con gli occhi spalancati, pieni di terrore. Era morto. Mia madre, davanti a lui, piangeva, con le mani sporche di sangue. Un pianoforte invisibile suonava una melodia infernale.


    Riaprii gli occhi: il padrone di casa mi stava fissando leccandosi le labbra, e pregustando il dolce sapore della mia carne. Li richiusi, pregando che qualcuno venisse a salvarmi.
    Aprii gli occhi e mi svegliai di soprassalto. Era ancora notte fonda e la debole luce della luna piena illuminava leggermente la mia stanza, rendendola visibile. Provavo una strana inquietudine, ma anche del sollievo, come se fossi uscito indenne da una situazione terrificante. Ma ancora una volta non riuscivo a ricordare, e avevo l'impressione di aver fatto di nuovo lo stesso sogno che mi perseguitava ormai da settimane. Provai a riportare alla mente il mio incubo ma, visti i risultati negativi, dopo essermi tranquillizzato decisi di ritornare a dormire.


    BUONA FORTUNA A TUTTI!
     
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  3. Nyxenhaal89
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    Essendo un partecipante, voto nullo.
    PERO' UPPO. VOTATE, PORCA TROIA. :onan:
     
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    Sì infatti >___> VOTATE SE NO VI FRUSTIAMO >_________>
     
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  5. elios996
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    sono troppo lunghi, non ho tempo per leggerli tutti LoL
    (non uccidetemi XD)
     
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    ramarro marrone ramarro marrone

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    boh

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    CITAZIONE (elios996 @ 4/4/2012, 21:19) 
    sono troppo lunghi, non ho tempo per leggerli tutti LoL
    (non uccidetemi XD)

    Tu si che vinci bene
     
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  7. elios996
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    dai, stavo scherzando, ho votato Roxy
     
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  8. ~ S u n n y «
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    _Holy
    Diciamo che il genere fantascientifico/cybernetico/robe di questo genere non è che mi piaccia proprio molto e forse, non so, è proprio per questo che la storia mi ha presa poco! Mancava sicuramente l'elemento principale, ciò che in genere mi cattura di una fiction e, cioè, una caratterizzazione profonda dei personaggi. Insomma, se c'è io non l'ho colta per niente e ciò mi ha portato a leggere il testo semplicemente come spettatore esterno e non a farmici "tuffare" come invece desidererei da uno scritto.

    Nyxenhaal89
    Sembrava rispecchiare il genere che mi piace all'inizio, ma poi mi ha delusa un po'. Diciamo che io sono il tipo che non manda bene giù il fantasy, tra cui fate, folletti spiriti (a meno che non siano intesi come fantasmi e quindi tratti tutt'altro genere).
    Secondo me, non so per quale motivo, l'autore si è fermato troppo sui piccoli particolari, costruendo lunghi periodi dal "succo" ristretto, insomma, frasi che spezzavano un po' il testo anche quando non c'era l'azione.
    Oltretutto, parere fondamentalmente di gusto e non tecnico, non mi è affatto piaciuto lo svilupparsi della vicenda, spiritelli della città eccetera, ancor di meno la conclusione.

    Skywards
    E' ovviamente il testo che mi è piaciuto di più, ogni singola virgola ed ogni punto. Amo molto quando un testo parte su certi argomenti di fondo, amo il realismo e la concretezza di una storia, amo poter sfiorare i personaggi con le dita e amo aver trovato tutto questo in un racconto breve ma intenso, a mio parere migliore degli altri!
    Inutile che mi dilunghi troppo, il talento dello scrittore parla da sè.

    Roxy!
    Come ho già detto in precedenza non mi piace molto il fantasy, quindi non essendo l'intero testo di un genere a me gradito non dirò molto. Lo scritto non mi ha colpita da nessun punto di vista!

    Balm Mark
    Inutile dire che l'autore ha sicuramente scelto di trattare un genere (il mio preferito, però ) difficilissimo. Mi dispiace, ma ha totalmente fallito. Pur essendo io un tipetto facilmente impressionabile, una storia del genere non dà al lettore ciò che ci si aspetta da un horror (anche se l'autore non l'ha messo in chiaro mi pare di aver capito che era quello il genere che si voleva imitare).
    Non c'è la giusta suspense, non c'è il giusto utilizzo di termini, non c'è la giusta "attesa".


    Ovviamente il mio voto è andato a Skywards.
    Come avrete notato non ho dato alcun parere tecnico perché in nessuno dei lavori c'era granché da rimproverare, erano tutti scritti molto bene, a volte ho rilevato l'uso di un registro che mi è sembrato fuori luogo, ma nulla di che. I miei giudizi si son basati tutti sul puro gusto personale e, non me ne vogliano gli "sconfitti", ovviamente ritengo quello di Skywords ad un livello superiore, non solo perché la sua personalità dal punto di vista artistico mi ha sempre interessata.
    In ogni caso tutti quanti avete fatto un buon lavoro, vi siete impegnati e questa è la cosa più importante!
    Alla fine vedremo chi vincerà! (:

    (Non ho ricontrollato il post quindi se c'è qualche errore di battitura o grammaticale, perdonatemi, sono abbastanza fusa e mi sento poco bene, ma ci tenevo a dare una mia opinione dopo aver letto tutto!)
     
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  9. Roxy!
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    Grazie Elios <3
    Grazie anche all'altro voto che non ho capito di chi è

    voto nullo, per ovvi motivi xD

     
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    this is life, not heaven

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    ti ho votato io :)
     
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  11. Roxy!
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    Grazie prasi, anche a te <3
     
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  12. k u a p i ' o
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    Voto Sky. Ammetto di non aver letto integralmente tutti gli altri lavori, ma sono un tipo dai gusti difficili. Se una cosa non mi prende dall'incipit non posso farci nulla, non riesco proprio a continuare a leggerla.
    Eppoi adoro quello stile <3
     
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    Grazie mille a ~ S u n n y « e k u a p i ' o (oddio insieme sembrano un nick solo) per i voti e in particolare a ~ S u n n y « che si è presa anche la briga di dare le sue motivazioni! c:
     
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