Carillon

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    Schwarz

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    Autore: Sanè
    Titolo: Carillon
    Genere: Introspettivo
    Tipo: One Shot
    Fandom: Final Fantasy IV
    Autore su EFP: Marly94
    Note: Piccola One Shot su un personaggio che mi affascina *3* Golbez, uno dei più bei Villain in assoluto, quindi, come non dedicargli una bella sega mentale su di sè e sul proprio "credo" <3?
    Spero piaccia, ho cercato rimanere più IC possibile :asd:. Infatti questo è un remake di un vecchio lavoro, non ho cambiato niente se non la parte centrale, con i pensieri riguardanti il passato, e giusto qualche forma di punteggiatura. So che Somnus c'entra poco con FFIV, ma una versione Carillon sarebbe oltremodo magnifica, ed adattissima a questo char <3

    Somnus

    Tellus dormit
    et liberi in diem faciunt
    numquam extinguunt
    ne expergisci possint

    Omnia dividit
    tragoedia coram
    amandum quae

    Et nocte perpetua
    ehem vel vera visione
    par oram videbo te
    mane tempu expergiscendi

    -Yoko Shimomura, Somnus Nemoris

    Carillion

    Rosso. Un Borgogna come gli altri.
    Ne saggiò la consistenza muovendo il bicchiere di cristallo che aveva in mano; piccoli movimenti rotatori, prima in senso orario, poi antiorario.
    In sottofondo, un lieve concatenarsi di note melodiose, limpide, che provenivano da una piccola scatoletta di avorio rifinito con schiuma, pallido come la luna. Riposto su un tavolino davanti alla sedia dove si era disteso. Disteso, rilassato, quasi totalmente disordinato, eppure manteneva ancora una certa aria di maestosità .
    Non gli importava.
    Al diavolo le pose plastiche e le posture da comandante, aveva diritto a un momento di riposo, nel quale poteva sciogliere le membra nel fiume della riflessione; era tutto ciò di cui aveva bisogno: stare lì, su quello che assomigliava più a un trono, per poter godere del piacere di un bicchiere di vino e di quel componimento nostalgico.
    Tutto ciò di cui aveva bisogno, per poter pensare, riflettere, ricordare.
    Piccoli attimi, momenti di respiro tra una battaglia e l’altra, dove piccoli frammenti di memoria riemergevano dal mare procelloso della sua mente; anche gli avvenimenti più recenti venivano rimossi per le preoccupazioni e i pensieri del momento. Poi, tornavano. Lentamente, andando a comporre un mosaico luminoso.
    Già.
    “Cecil, presumo.”
    Il dito lisciò piano una piega del mantello nero, mentre ripensava a quell’incontro.
    Portò il calice alle labbra sottili, mentre assaporava il gusto dolciastro del liquido, sentendo le papille gustative pervase da un lieve torpore, le narici che s’inebriavano del profumo intenso alla cannella; un gusto remoto, che dava sollievo alla bocca.
    Nell’aria, le note continuavano a intrecciarsi l’una con l’altra; pian piano, riempivano ogni singolo atomo d’ossigeno presente nella stanza. Poteva sentire voci, echi cristallini giungere alle orecchie, risa, grida spensierate, mentre davanti ai suoi occhi apparivano forme, spettri.
    Fantasmi di un passato che non era il suo. Non più.
    Due bambini.
    “Cecil. Theodore.”
    Bambini che correvano, giocavano, venivano divisi l’un l’altro da un freddo muro di risentimento, di colpe che non c’erano, ma diventavano reali, filtrate da una voce che s’intricava nel ghiaccio, ispessendolo.
    E poi, il pentimento, la voglia, stanca, sonnolenta, di ritornare sui propri passi, di abbandonare tutto, per poter finalmente tornare a casa, e finire il resto dei suoi giorni nel caldo torpore che i ricordi della sua famiglia gli avrebbero donato.
    No. Ormai il sipario andava alzato, e a lui era stato affidato il compito di mettere fine a quella farsa. Non era più tempo di provare sensazioni effimere come la calma dei suoi scheletri, calma che sarebbe stata meglio da definire colpa; avrebbe calcato il palcoscenico, per poter finalmente schiacciare gli insetti che gli impedivano di realizzare i suo sogno.
    Bevve un altro sorso, alzò lo sguardo verso la finestra e due occhi violetti si posarono sulla luna, che candida e immacolata regnava sovrana nel manto stellato. Aprì la mano libera, portandola all’altezza del satellite, le dita ben distese. Lentamente le chiuse, stringendo l’immagine in una morsa.
    La luna nel suo palmo.
    Potere.
    Casa.
    Sì, Avrebbe messo fine a quella pagliacciata che andava per le lunghe.
    Sospirò, cullato ancora dal carillon; tutto era pronto, mancava solo un piccolo tocco. Poi, si levò dalla sedia e prese a camminare verso un trespolo; tutto come nei piani, così doveva andare. Si fermò vicino al mobile, prese l’elmo dal colore del cielo notturno, come tutta la sua armatura, e vi cinse la testa.
    E mentre il canto finiva, Golbez sparì, lasciando solo un alone di polvere nera.

    Arrrrr, commenti :UPirate:
     
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