Luna di Sangue

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  1. Nemeryal
     
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    Scritto per un contest^^

    Titolo: Luna di Sangue
    Autore: Nemeryal
    Fandom: Nessuno
    Rating: Arancione
    Note: Puff! Dopo tanta fatica, ecco finalmente la fan fiction! All'inizio l'idea mi era venuto per il 3 FOTM, ma con tutto quello che volevo metterci il numero di parole non bastava, così eccola qui, completa!
    Un grazie mille a Solanya e al mio migliore amico cui è ispirato il personaggio di Seytan
    Ah! Non sono d'accordo con alcune affermazioni del cacciatore, ma mi servivano per il personaggio^^ Buona Lettura!
    Racconto: Luna di Sangue
    (Gensomaden Saiyuki Original Soundtrack - Sanzo Kaisou)
    Appoggiò la schiena contro il muretto, alzando al cielo il viso coperto di sangue.
    Era quasi il tramonto e alcune nuvole stendevano il loro velo opaco sul sole morente. I raggi vermigli scivolavano sul selciato, carezzando le lugubri macchie purpuree sui suoi abiti.
    Poco lontano, una villetta bianca, immersa nel verde-dorato di un prato, troneggiava contro il cielo violetto. Gli alberi si chinavano appena sopra il muro che costeggiava il viottolo, che terminava in un alto cancello verde acqua, coperto in alcuni punti da chiazze marroni dove la pittura si era staccata.
    Sospirò, chiudendo gli occhi appannati da un velo rossastro e passando una mano sui capelli impiastricciati di sangue rappreso.

    La Luce penetrava dalle vetrate istoriate, allungandosi pigramente lungo la navata, serpeggiando lungo le colonne di marmo, insinuandosi tra i bassorilievi e scintillando sui candelabri d’ottone degli altari.
    Un pulviscolo dorato turbinava nell’aria, posandosi con grazia sulle panche dove i fedeli si inginocchiavano a pregare e soffermandosi appena sulle fiammelle dei ceri votivi.
    Tutto era immerso nel silenzio.
    Si avvicinò, mentre i suoi passi risuonavano lungo la navata, infrangendosi contro le statue dei santi.
    Dall’abside, il Crocifisso lo fissava con gli occhi aperti e il busto eretto, simbolo della sua vittoria sulla morte, con i tre riccioli che cadevano composti sulle spalle; alla luce incerta delle candele poste sull’altare, il sangue che colava dai palmi delle mani e dai piedi sembrava vero, quasi dovesse scivolare sulla struttura di legno e cadere come gocce di pioggia sul pavimento candido; i volti di Maria e di Giovanni ai lati del Redentore parevano davvero contratti da una smorfia di dolore e solcati da lacrime scintillanti.
    Si inginocchiò, giungendo le mani e posandovi sopra la fronte.
    Il silenzio della Chiesa ebbe un fremito non appena le parole della preghiera fuoriuscirono dalle sue labbra, in un sussurro indistinguibile.
    Alzò lo sguardo verso il crocifisso, avvertendo gli occhi del Cristo penetrare come coltelli nella sua anima, insinuandosi dentro di lui, scrutando ogni tenebra del suo cuore.
    Si girò, distogliendo lo sguardo da quella dolorosa perfezione.
    Una figura veniva verso di lui, il capo circondato dalla luce proveniente dal rosone.
    Il volto era una ragnatela di rughe,su cui la luce baluginava per un istante, scomparendo subito dopo e riaccendendosi nuovamente su un altro particolare del viso; gli occhi erano piccoli, neri, sormontati da cespugliose sopracciglia candide; le labbra erano sottili, quasi scomparivano sotto il naso aquilino, che sembrava congiungersi direttamente al mento aguzzo.
    Il talare di lana rossa, con bottoni e cucitura di seta del medesimo colore, era completata da una mozzetta dello stesso tessuto e da una fascia in seta ondulata, anch’essa rossa. Sul capo, a coprire la calvizie e alcune macchie scure, una berretta e uno zucchetto di seta ondulata, vermiglia. Il rocchetto candido e la croce pettorale sostenuta da un cordone rosso e oro completavano la veste corale del Cardinale.
    Si alzò il piedi, chinando il capo in segno di rispetto per quell’uomo venerabile.
    -Suvvia, ragazzo- lo riprese il Cardinale; la voce era secca, gracchiante –Non c’è bisogno di questi convenevoli. Ti conosco da quando eri bambino-
    Rialzò la testa e sorrise nella direzione del vecchio.
    -Una missione pericolosa ti attende, ragazzo mio- l’anziano sospirò, un sospiro rauco, quasi affaticato –Tra tutte le creature che si sono ribellate al Signore, i Lupi Mannari sono le peggiori. Non hanno alcuna pietà, non risparmiano le donne e nemmeno i bambini. I Cacciatori come te tentano da secoli di liberare il mondo dalla loro immonda presenza, senza, ahimè, riuscirci.
    -Santacroce- e la sua voce tremò alcuni istanti –Ha fallito. Lo avevamo mandato per sterminare un clan di Lupi Mannari della città C., un clan di sei membri, senza contare i due capibranco, secondo le nostre fonti. Abbiamo trovato Santacroce seduto sulla scalinata, due sere fa, sotto la pioggia. Era vivo, ma quelle bestie lo avevano morso, come avrai capito, senza l’intenzione di ucciderlo, ma solo per ridurlo come uno di loro-
    Il Cardinale si interruppe, fissando gli occhi aperti di Cristo davanti a lui.
    -Abbiamo dovuto ucciderlo noi, povero ragazzo, prima che diventasse un mostro- la sua voce era rotta e le rughe sul viso si erano contratte in un’espressione di dolore. Rimase in silenzio alcuni istanti, poi si voltò –Fai attenzione, ragazzo mio e che la Benedizione del Signore scenda su di te. Pregherò intensamente fino al tuo ritorno-


    Presto sarebbe scesa la notte e la luna piena avrebbe brillato, appesa al manto scuro del cielo.
    Lupi mannari, orride bestie senza Dio, guidati dagli istinti più bassi e degradanti dell’uomo.
    Li cacciava con piacere, beandosi della loro morte, rabbrividendo di piacere nel sentire quel sangue maledetto scorrere tra le sue dita, caldo, piacevole.
    Ogni licantropo ucciso era una vittima innocente vendicata.
    Quei sudici cani non avevano pietà, perché lui avrebbe dovuto averne?

    Ancora poco e avrebbe sterminato gli ultimi componenti del clan della città.
    Mancava solo un membro e poi i due più difficili da uccidere, i capibranco, una maschio e una femmina.
    Degli altri lupi conosceva il nome e grazie ad esso era riuscito a risalire ai loro volti, ma dei due non sapeva nulla.
    Nemmeno il ragazzino a cui aveva estorto l’informazione lo sapeva.
    Nessuno nel clan conosceva i loro veri nomi.
    Era stato facile farsi dire ciò che voleva dalla sua preda. L’aveva catturato in una notte senza luna, quando non era altro che un semplice essere umano.
    Aveva quattordici anni; era stato uno scherzo stordirlo e portarlo in un fabbricato sul molo, lontano da sguardi e orecchie indiscrete.
    Lo aveva legato saldamente ad una sedia e lo aveva svegliato con una secchiata d’acqua gelida.
    Il ragazzino lo aveva guardato con i grandi occhi celesti, colmi di lacrime.
    Non si era lasciato intenerire.
    Aveva iniziato a fargli qualche domanda, a chiedergli qualche nome, ma vedendo che la sua vittima rimaneva in silenzio, aveva deciso di diventare un pochino più..persuasivo.
    Piano piano, senza ascoltare le sue urla, gli aveva rotto un dito dopo l’altro, sentendo le ossa fracassarsi sotto i polpastrelli; il ragazzino si contorceva sulla sedia, gridando e chiamando la mamma.
    Tsk.
    Patetico.
    Visto che non si decideva a parlare, aveva afferrato uno dei due pugnali che portava sempre alla cintola, e aveva riscaldato la punta con la fiamma dell’accendino.
    Gli occhi della sua vittima si erano sgranati nel vedere il lucido metallo lampeggiare sotto la luce della fiamma.
    I lupi mannari temono l’argento.
    Letale se si trovano nella loro forma mannara, quando sono semplicemente esseri umani il solo contatto con esso li ricopre di splendide vesciche ripiene di pus.

    La lama d’argento scintillava sotto la luce delle candele.
    Sopra vi era incisa la frase “Gloria in excelsis Deo”


    Aveva preso il braccio del ragazzino e aveva cominciato a disegnare sulla sua pelle eleganti arabeschi scarlatti. Il fuoco e l’argento ebbero un effetto devastante.
    Aveva cominciato ad urlare, dimenandosi sulla sedia con un indemoniato, mentre il braccio, il viso, il petto, ovunque passava con la lama argentata incandescente, avevano cominciato ad arrossarsi e a coprirsi di vesciche.
    Aveva riposto il pugnale nella cintola e aveva guardato il sangue colare sul corpo del ragazzino, gocciolando a terra.
    Sorridendo, aveva ripreso l’accendino e aveva sfilato una sigaretta dal pacchetto di Amadis Silver. L’aveva accesa e dopo aver aspirato una boccata di fumo, l’aveva spenta su una delle pustole.
    La vescica era scoppiata, facendo uscire il suo liquido oleoso misto a sangue vermiglio.
    Aveva continuato così per non sapeva quanto tempo, accendendo e subito spegnendo la sigaretta sul corpo martoriato della sua vittima, che piangeva e implorava.
    Ridendo, aveva ripreso il pugnale e aveva cominciato ad aprire le vesciche con quello, con le urla del piccoletto che rimbombavano nel fabbricato abbandonato, mischiandosi al timido scoppio delle bolle purulente e al sordo picchiettare del sangue purpureo sul pavimento.
    Alla fine, la lingua gli si era sciolta.
    Aveva snocciolato un nome dopo l’altro e fissandolo terrorizzato mentre giocherellava con il pugnale, ghignando.

    Sfilò una Amadis e l’accese, aspirando lentamente il fumo, lasciandolo poi uscire in un soffio grigio dalla bocca appena dischiusa.

    Aveva rovesciato la sedia, lasciando la vittima ad annegare nel suo stesso sangue.
    Se ne era andato, i passi che risuonavano lugubri nel silenzio della notte, ripulendo con cura la lama d’argento.

    Fissò la sigaretta stretta tra l’indice ed il medio della mano destra, osservando i fili di fumo alzarsi e sparire nel crepuscolo.
    Nonostante le vittime che avevano mietuto i suoi membri, il clan era piuttosto piccolo.
    Sei licantropi, escludendo i due capibranco.
    Cinque uccisi in tre giorni.
    Il quinto era un avvocato, un signore rispettabile di trentacinque, quarant’anni.
    Aveva dedicato la sua vita alla legge, difendendo i più deboli e proclamando a gran voce i diritti che ogni uomo doveva avere, prima di tutti quello di vivere.
    Ironico.
    La mattina in tribunale e le notti di luna piena a infangare lo stesso diritto di vita che proclamava a gran voce.
    Gli aveva tagliato la giugulare e il sangue era sprizzato sul viso e sugli abiti, impregnandoli del suo inebriante profumo metallico.
    Il quarto era una prostituta, neanche troppo bella a dire il vero.
    Viso tondo circondato da una cascata di unti capelli biondi, occhi un poco a mandorla, naso schiacciato, seno prominente e fianchi sformati dal grasso e dagli aborti.
    Le si era avvicinato, le aveva dato qualche banconota e l’aveva portata in un vicolo scuro e poco frequentato; le aveva cavato gli occhi con il pugnale d’argento e aveva spinto la sigaretta nel bulbo, ascoltando il crepitare dei nervi e le sue urla; poi aveva tracciato sul suo petto una tacca per ogni persona morta a causa del suo clan maledetto.
    Il terzo lavorava in un negozio di cd, un ventenne scialbo, anonimo.
    Lo aveva ammazzato mentre stava facendo jogging. Il proiettile era partito con uno schiocco e sibilando aveva perforato l’occhio destro, creando un foro nella nuca. Il lupo mannaro era rimasto interdetto e poi era crollato in terra, senza vita.
    Il primo era il direttore di una banca.
    Gli aveva tagliato i tendini, gli si era seduto a cavalcioni sopra, aveva piantato le due lame nel petto e poi era sceso, lentamente, fino all’inguine, mentre le urla della vittima facevano tremare le pareti della casa vuota.
    Ma il secondo. Oh, uccidere il secondo era stata un piacere immenso, un’estati che non avrebbe più provato in tutta la sua vita.
    Lo aveva aspettato nella stazione silenziosa, all’alba.
    Era una donna, dai lunghi capelli ramati e gli occhi d’ambra, sormontati da sopracciglia sottili e curate; il corpo snello era fasciato da un impermeabile, lungo fino alla ginocchia e sotto di esso si intravedeva una splendida camicetta candida, con i primi due bottoni aperti e una gonna scura.
    Le si era avvicinato di soppiatto, le aveva tappato la bocca e l’aveva costretta contro la parete.
    Lei aveva cercato una via fuga, scrutando nervosamente la stazione alla ricerca di qualcuno che la potesse salvare.
    Ma Dio non aiuta quelli come loro, non aiuta gli assassini.
    Schiacciandola contro il muro con il proprio corpo, aveva estratto il pugnale e aveva fatto saltare lentamente i bottoni della camicetta, con la stessa dolcezza con cui spogliava le sue donne.
    Aveva passato la lingua nell’incavo dei seni e poi li aveva tranciati con un colpo secco, macchiandosi il lungo soprabito nero.
    Aveva potuto sentire l’urlo di dolore di lei che si schiantava e si infrangeva contro le sue dita e, sentendo lontano il fischio del treno, si era avvicinato al binario, nascondendosi dietro una colonna e tenendola sempre stretta a sé, in modo da non lasciarla scappare.
    Calcolando bene il tempo, l’aveva fatta girare e le aveva dato una spinta nella schiena.
    Con un urlo era caduta in mezzo ai binari nello stesso istante in cui il treno passava a tutta velocità.
    Il suo corpo si era disintegrato per l’impatto e le viscere, il sangue e le cervella si erano sparse tutt’intorno, macchiando il pavimento, i binari, le colonne e il vetro della locomotiva.
    Si era tolto un pezzo di intestino fra i capelli e lo aveva guardato con sufficienza, per poi schiacciarlo tra le dita.
    Prima che qualcuno si accorgesse della sua presenza, aveva preso un sacchetta nero della spazzatura da una tasca, si era sfilato il soprabito, vi aveva avvolto dentro i seni della lupa, li aveva gettati dentro cestino e poi vi aveva dato fuoco con l’accendino.
    Adesso stava aspettando che il sesto uscisse per la sua passeggiata serale.
    Di lui sapeva solo che frequentava l’Università, indirizzo Beni Culturali.
    Doveva attaccarlo prima che la Luna sorgesse, quando era ancora debole.
    Estrasse la pistola dal fodero e la osservò sotto gli ultimi raggi del sole: una Smith&Wesson 686, calibro 357 Magnum, nera, con una piccola croce d’argento sulla canna.
    La rinfoderò e si passò nuovamente una mano fra i capelli, tastando il grumo di sangue della sua ultima vittima.
    Sorrise.
    Non imparava mai!
    Gli altri cacciatori gli avevano sempre insegnato che bisognava assalire la vittima da dietro e poi tagliargli la gola. Ma lui adorava così tanto vedere gli occhi delle sue vittime sgranarsi e poi diventare vitrei, anche se gli succedeva sempre di macchiarsi il viso di sangue, quasi fosse un neonato alle prese con il sugo della pasta!
    Il sangue sprizzava con un sibilo gioioso, una melodia per le sue orecchie.
    Si sporse nel sentire una porta chiudersi e vide la sua vittima uscire di casa.
    Indossava una camicia rosa e pantaloni neri attillati, a vita bassa e si muoveva in maniera abbastanza equivoca.
    Storse la bocca, gettò a terra la sigaretta e la spense con il piede, con un gesto rabbioso.
    Lupo mannaro e checca! Se fosse stato anche comunista avrebbe fatto Jackpot!
    Peccato che il lupacchiotto non sarebbe vissuto abbastanza per dirglielo.

    Si avvicinò silenzioso, le scarpe che producevano un indistinguibile ticchettio sull’acciottolato.
    Estrasse la pistola dal fodero e puntò la canna contro il collo della vittima.
    -Hai finito di vivere mostro- annunciò, facendo per premere il grilletto.
    L’altro però, fu più veloce e con un calcio rotante spedì la pistola contro il muro, facendo rovesciare a terra i proiettili.
    Rimase abbastanza stupito da dare il tempo al suo avversario di tirargli un pugno al viso e farlo cadere schiena a terra.
    Gli si sedette a cavalcioni sopra, bloccandogli le braccia con le mani e avvicinandosi al suo viso.
    -Cosa credevi, che non ti avessi sentito, gioia?- domandò quello, ironico, calcando molto sul “gioia” –Le notizie volano, caro mio. Aspettavo il tuo arrivo da un momento all’altro. Cinque lupi mannari massacrati in tre giorni, non sai proprio cosa voglia dire la parola discrezione! Poco importa- sorrise –Fra poco la luna piena sorgerà e tu sarai il mio primo pasto della serata-
    -Muori, lurida feccia!- esclamò, sputandogli in un occhio.
    Il lupo mannaro si ritrasse e alzò le braccia, lasciandogli libere le mani. Ne approfittò per colpirgli il naso con il palmo, rompendogli l’osso e facendo affondare le schegge nel cranio.
    Gli prese il volto e lo fece girare.
    Uno schiocco e gli spezzò il collo.
    La sesta vittima crollò sul suo petto e con un gesto disgustato se lo levò di dosso, per poi prendergli il portadocumenti.
    -Lo sapevo, bastardo, sei anche comunista- ringhiò vedendo la tessera del partito.
    Sputò a terra e prese uno dei pugnali.
    -Ma cos’hai in testa?- domandò con un ghigno.
    Affondò la lama nella nuca e aprì uno squarcio nella nuca, poi vi infilò la mano, rigirando le dita tra i liquami del cervello.
    -No, non hai proprio nulla nella..-
    Avvertì due presenze dietro di sé.
    Si voltò e vide un ragazzo ed una ragazza con un’espressione sconvolta sul viso.
    -State tranquilli- disse alzandosi e lasciando cadere la poltiglia grigiastra a terra –Vi ho liberato dalla feccia-
    -Davvero? Tu cosa ne dici, Rémkér?- chiese il ragazzo
    -Io ne vedo ancora, Seytan- rispose la compagna.
    -Hn?-
    Si girò e nello stesso istante la luna, fino a quel momento coperta dalle nuvole, comparve in cielo e i suoi raggi squarciarono l’oscurità della notte.

    (Skillet - Whispers in the Dark)
    La luce argentea scivolò lenta sul selciato, coprendolo con il suo manto, fino ad avvolgere i due ragazzi nel suo abbraccio.
    Un brivido corse lungo la sua schiena e indietreggiò.
    Lo sguardo di Rémkér divenne completamente nero, mentre il petto le si alzava e si abbassava con violenza.
    Digrignò i denti e ringhiando si mise a terra, a quattro zampe, come un cane. Inarcò la schiena, alzando il viso verso la luna.
    Il taglio degli occhi si allungò, così come il volto, mentre il naso si appiattiva, insieme al cranio; aprì la bocca e i denti scintillarono, più aguzzi e pericolosi.
    Un pelo grigio cominciò a coprirle il corpo, mentre le dita della mano si ritiravano e i muscoli delle braccia si facevano più sottili e scattanti.
    Deglutì e si bloccò, avvertendo dietro di lui il lucchetto del cancello, ancora aperto.
    Fissò lo sguardo su Seytan, mentre un rivolo di sudore gli colava dalle tempie.
    Il ragazzo sbuffava e ringhiava, sferzando l’aria con la lunga coda che gli era appena comparsa; gli occhi erano diventati ambrati e la pupilla era quasi del tutto dilatata.
    Un paio di orecchie aguzze apparve sul cranio appiattito, lateralmente, mentre le narici fremevano e le unghie delle zampe grattavano impazienti a terra.


    -Nel momento della trasformazione i Lupi Mannari sono più deboli. Non sono più uomini, ma non sono ancora del tutto Lupi. Se mai ti troverai ad affrontare quelle bestie immonde quando sono in quello stato, cerca di ucciderle in fretta, potrebbe essere la tua unica occasione-


    Con uno scatto, si gettò di lato per andare a recuperare la rivoltella.
    La raccolse, gettandovi un’occhiata febbrile: non c’era nessun danno evidente, o almeno, non molto grave.
    Raccolse i proiettili d’argento e li rimise in fretta nel tamburo, poi si girò, il dito sul grilletto, pronto a fare fuoco.
    Vide solo un’ombra nera e poi fu sbalzato all’indietro, un dolore tremendo al polso della mano che non teneva la pistola.
    Si rialzò in piedi e imprecò sottovoce, mentre il cuore accelerava i battiti.
    Seytan aveva concluso la trasformazione.
    Ora lo fissava con rabbia, il corpo piegato, pronto a saltare, i denti digrignati e un rivolo di saliva che colava dalle fauci aperte.
    Era due volte un lupo normale, il pelo grigio antracite, che sul dorso sfumava in un beige con punte nere, ventre chiaro, quasi bianco, e la mascherina estesa intorno alle labbra inferiori e superiori color crema.
    Ringhiando, si accucciò ancora un poco e poi saltò, con uno scatto delle zampe posteriori.
    Serrò la mascella e riuscì ad allontanare il licantropo, colpendolo alla mandibola con il calcio della pistola.
    Il Lupo Mannaro rotolò a terra, ma si rialzò all’istante, ringhiando e fissandolo con gli occhi ambrati colmi di odio.
    Mise il dito sul grilletto, ma un colpo alla schiena lo fece cadere a terra.
    Si voltò, ma Rémkér era già su di lui, completamente trasformata.
    Lo teneva bloccato a terra con le zampe anteriori sulle spalle, le braccia aperte come fosse crocifisso.
    Le narici nere fremevano, lo sguardo era iniettato di sangue e i denti aguzzi si trovavano poco distanti dal suo viso: poteva sentire il fiato caldo sulla bocca.
    Ringhiò, poi aprì le fauci, pronta per chiuderle attorno al suo collo.
    Piegò le gambe e colpì la lupa al ventre, allontanandola e facendola sbattere a terra con un uggiolio.
    Si rialzò in piedi e avvertì un ringhio dietro di lui; si spostò di lato e vide con la coda dell’occhio il profilo di Seytan passargli accanto velocemente.
    Aveva tentato di colpirlo alle spalle con un salto, senza riuscirci.
    Si voltò e vide il licantropo aiutare la compagna ad alzarsi.
    Rémkér ringhiò, le zampe un poco tremanti
    Il pelo grigio perla brillava sotto i raggi della luna, mentre la coda, con la punta bianca come il ventre, sferzava l’aria con rabbia.
    Puntò la pistola e sparò, ma i due Lupi Mannari furono più veloci e si lanciarono di lato, evitando la pallottola che si schiantò con uno schiocco sul lastricato.
    Rémkér e Seytan cominciarono a girargli intorno lentamente, con un ringhio basso e gli occhi lampeggianti.
    Alzò il braccio e sparò un altro colpo.
    Sibilando, il proiettile saettò nell’aria, diretto verso la lupa, ma quella si piegò sulle zampe e saltò di lato, schivandolo.
    Nello stesso istante, avvertì un dolore tremendo alla spalla destra; si voltò di scatto e vide Seytan poco distante da lui, le fauci aperte e denti macchiati di sangue.
    Si portò una mano dove il licantropo lo aveva morso, il volto contratto in una smorfia di dolore.
    Quell’orrida bestia aveva approfittato del fatto che era girato di schiena, per saltare e azzannarlo, tornando a terra con un salto.
    Cercò di alzare il braccio per sparare, ma il dolore percorse l’arto come una scossa elettrica, costringendolo a lasciar cadere la rivoltella.
    Strinse i denti, stringendosi la parte ferita, mentre le due belve si lanciavano sguardo infuocati, i loro respiri si facevano più veloci e le code si agitavano impazienti.
    No, non sarebbe morto e nemmeno avrebbe implorato pietà, supplicandoli di diventare uno di loro solo per rimanere in vita.
    Piuttosto si sarebbe suicidato, sebbene fosse assolutamente convinto che i due non avrebbero mai accettato nella loro sporca famiglia colui che l’aveva distrutta senza pietà.
    Nonostante la situazione, si lasciò sfuggire un ghigno sarcastico.
    I lupi si stavano avvicinando sempre di più, senza distogliere lo sguardo da lui.
    Visto che la destra era inutilizzabile, scese con la mano sinistra fino al fodero dove teneva il pugnale d’argento e lo sguainò, mettendosi in posizione di difesa.
    Negli occhi dei licantropi passò un lampo di paura nel vedere il metallo risplendere sotto la luce lunare.
    Si fecero più irrequieti e i loro ringhi divennero più bassi e pericolosi.
    -Venite, luride bestiacce-
    Rémkér scattò, le fauci aperte, ma era pronto a riceverla.
    Si girò di tre quarti, il braccio teso, schivando l’assalto della Mannara.
    La lama d’argento sibilò e colpì la lupa di striscio, appena sopra il ventre.
    Il licantropo guaì, ma non ebbe il tempo di controllare quanto il suo attacco l’avesse indebolita, perché Seytan era già su di lui.
    Stringendo i denti per resistere al dolore, alzò il braccio destro e lo mise orizzontalmente di fronte al viso, perché le mandibole del Capobranco si chiudessero su di esso e non su quello sano.
    Una scarica elettrica gli attraversò l’arto, facendogli sfuggire un gemito.
    Avvertì il sangue scorrere caldo e copioso, macchiando la manica del soprabito.
    Con un gesto secco che gli strappò un ringhio di dolore e gli fece lacrimare gli occhi, allungò il braccio destro lateralmente, costringendo il lupo a staccarsi.
    Il Mannaro atterrò senza danni e gli si avvicinò lentamente, le orecchie tese e le narici frementi.
    Lo guardò con aria di sfida, facendo roteare il pugnale.
    -Lurida feccia- mormorò con odio –Non ucciderete più nessuno-


    (Gensomadn Saiyuki Original Soundtrack - Kako)
    Il corpo era riverso sul terreno, in una pozza di sangue scarlatto, gli occhi rivoltati nelle orbite, la sclera bianca brillante sotto i primi raggi del sole e le ossa che spuntavano aguzze dalla carne ridotta a brandelli.
    Strinse con più forza la mano del Cardinale, rabbrividendo nel suo cappottino.
    Alzò lo sguardo su Santacroce, di pochi anni più grande di lui, inginocchiato vicino al cadavere, il viso pallido e le labbra di una malsana tonalità violacea.
    Il vecchio gli mise una mano sulla testa
    -Questo è ciò che i Lupi Mannari portano con la loro immonda esistenza: morte.
    -Servi di Lucifero, essere maledetti che vagano senza una meta, seminando la loro maledizione. Le loro strade sono bagnate del sangue delle loro vittime-
    Il Cardinale gli lasciò andare la mano e si chinò davanti a lui, guardandolo con i piccoli e lucenti occhi neri
    -Quando sarai abbastanza grande, anche tu diventerai un Cacciatore, un servo del Signore, e nel Suo nome porrai fine alla loro infernale esistenza, rimandandoli nell’Inferno da cui provengono-


    -Non infetterete mai più nessun Figlio di Dio con il vostro sporco sangue maledetto-

    Pioveva.
    Il vento urlava e strepitava, gli alberi si piegavano dolenti sotto i suoi schiaffi prepotenti e il cielo si addolorava per quella sofferenza, piangendo lacrime affilate come coltelli e lasciandole libere di infrangersi contro le finestre, le porte e le strade.
    Uscì dalla Chiesa e si infilò il cappuccio della felpa scura.
    Fece per andarsene, quando si accorse di Santacroce seduto sugli scalini, il viso alzato verso le nuvole livide e gonfie, i capelli attaccati al volto e le guance rigate, forse dal pianto, forse dalla pioggia.
    Si avvicinò e si sedette accanto a lui, in silenzio.
    Rimase alcuni istanti senza dire o fare nulla, poi Santacroce nascose la mano sotto il soprabito scuro , ne estrasse una foto e gliela porse.
    La prese e la fissò.
    Una bambina di forse cinque anni sorrideva al fotografo, i boccoli fulvi che incorniciavano un viso rotondo e paffuto, abbellito da grandi occhi azzurro-verde e un tenero nasino a patata.
    Indossava un vestitino bianco, con del pizzo chiacchierino attorno alla vita e stringeva tra le mani un enorme peluche a forma di cane lupo.
    -Chi è?- chiese a Santacroce, ridendo –Una tua figlia segreta?-
    -E’ il mio prossimo obbiettivo-


    Si gettò in avanti con un urlo, pronto ad affondare il pugnale nel ventre di quel sudicio maschio di licantropo, ma Rémkér si parò davanti al suo compagno e saltò, ringhiando, chiudendo le mandibole sulla sua mano sinistra.
    Gridò, non riuscendo a sopportare il dolore e lasciò andare l’arma.
    La lupa si staccò da lui, le zanne macchiate di sangue cremisi, gli occhi lampeggianti d’ira.
    Alzò lo sguardo, pronto a reagire, ma era troppo tardi.
    Seytan gli fu addosso con un balzo e lo costrinse a terra, affondandogli gli artigli nella carne.
    Il fiato caldo e puzzolente gli fece contrarre il viso per il disgusto.
    -Bastardo d’un cane rognoso- ringhiò, digrignando i denti.
    Il lupo non attese un istante di più; alzò il muso al cielo, ululò e poi si gettò con le fauci aperte sulle sue braccia.

    Fai attenzione, ragazzo mio e che la Benedizione del Signore scenda su di te.

    Dolore.
    Dolore infinito.
    Sangue.
    Sangue rosso.
    Dove?
    Dove sei?
    Perché?
    Perché mi hai abbandonato?

    Pregherò intensamente fino al tuo ritorno

    Un ringhio.
    Un ringhio animalesco.
    Fiato.
    Fiato caldo.
    Fauci.
    Fauci e zanne.

    che Dio ti benedica

    Un urlo.
    Un urlo che dilania la terra.
    Un urlo di dolore.
    Un urlo di terrore.
    Un urlo di disperazione.

    -Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?-



    (Kingdom Hearts II Original Soundtrack - Organization XIII)
    L’alba tinse di violetto il viale acciottolato.
    I primi raggi del sole scivolarono su un corpo riverso a terra, ormai ridotto ad una bambola di carne maciullata.
    Il petto era stato dilaniato a morsi, così come il volto, da cui colava sangue e muscoli lacerati giacevano rattrappiti a terra. Il ventre era stato squarciato e le interiora pendevano scomposte, coperti di liquido purpureo e dai succhi gastrici. Le gambe erano state strappate e le ossa spolpate giacevano poco più in là.
    Le ossa sporgevano scarlatte tra i nervi e i fasci di muscoli, e i denti risplendevano come petali immacolati.
    Rémkér si asciugò un rivolo di sangue che le colava dalla bocca, la maglia bianca macchiata di rosso, per poi pulirsi gli occhiali rettangolari con un panno.
    -Il nostro clan è stato distrutto- disse con amarezza
    -Li abbiamo vendicati tutti- le rispose Seytan, osservando la lente circolare sporca di sangue –Lo ricostruiremo e uccideremo ogni Cacciatore che proverà a fermarci- disse, sistemandosi la maglietta scura e passandosi una mano fra i capelli neri.
    La ragazza si avvicinò agli occhi ciechi che erano rotolati poco lontano dal cadavere.
    -Hai sentito che ha urlato il nome di Dio prima di morire?- le domandò l’altro
    -Tsk- rispose lei, schiacciando gli occhi sotto le scarpe –Dio non aiuta quelli come loro, non aiuta gli assassini-

    Edited by Nemeryal - 13/8/2009, 18:31
     
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