Era Bella Cartagine, Imperium?

[Axis Power Hetalia] Drammatico, Introspettivo, Slice of Life, Missing Moments, Impero Romano, OC!Cartagine

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  1. Nemeryal
     
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    Okay, ragazzi! Preparatevi perché questo capitolo è lungo. Nonostante abbia saltato alcune battaglie, soprattutto nella Seconda Guerra Punica, e abbia parlato solo dell’ultima fase dell’assedio di Cartagine, questo penultimo capitolo è lungo.

    Le informazioni circa le guerre puniche e i personaggi citati, le potete tranquillamente trovare su Wikipedia (così non vi ammorbo neanche con note kilometriche! XD)

    Le uniche cose che forse vi dico prima sono:

    * a) Meretrix: Termine latino per indicare la prostituta

    * b) Enosictono: “Che scuote la terra”, attributo di Poseidone/Nettuno.
    * c) Il titolo si traduce con "Lo dice, ma ciò che la donna dice all'amante che la brama, bisogna scriverlo nell'aria e nell'acqua che scorre vorticosa

    Ho alzato il rating a Rosso perchè alcune scene piuttosto crude potrebbero, come dire..non essere gradite a molti. Quindi vi avverto prima! Sangue, violenza e anche qualche riferimento al sesso. Se siete particolarmente sensibili e/o non gradite queste cose, vi avviso prima.

    Ultima cosa. Nonno Roma qui è decisamente OOC rispetto a come ci viene presentato da APH. Però, la realtà di Roma, anche quella più cruda (Vedi Adys) era quella. Quindi, scusate se non è il solito donnaiolo che siamo abituati a vedere.



    Dedico questo capitolo a Solanya ^^

    Wordcounter: 4.926





    Liber III


    Dicit: sed mulier cupido quod dicit amanti,
    in vento et rapida scribere oportet aqua.

    (Catullo, Carme 70)







    [Primum Punicum Bellum, 264 – 241 a.C.]

    Sicilia, 264 a.C.




    -Il suono dei talenti è ancora più dolce del sistro delle sacerdotesse d’Egitto, non trovi anche tu, Romanus?-
    Quello non rispose, fissando impassibile Carthago, seduta poco distante da lui: aveva le braccia incrociate al petto e un ghigno sulle labbra esangui. Gli occhi neri afferravano i raggi del sole di Sicilia e li tramutavano in fiamme crepitanti di odio e rancore.
    Elissa si alzò e passeggiò lentamente attorno a Romanus, sfiorando con la punta delle dita il pugnale che portava alla cintola; dopo alcuni istanti si fermò e una risata amara si frantumò sulle sue labbra.
    -Che Gerone si nasconda tremante sotto la tua toga, Romanus! Che mi importa? Che importa a Carthago? Nulla..- si avvicinò all’altro, che la osservava senza battere ciglio, il respiro a stento trattenuto nel petto fremente –Sei solo un ragazzino, Romanus- ringhiò Carthago estraendo il pugnale dal fodero.
    Subito Romanus portò la mano al fianco, il freddo pomo del gladio già stretto tra le dita, ma vide con orrore che Carthago non aveva rivolto il pugnale verso di lui, ma contro se stessa.
    Fece per fermarla, ma quella chiuse la mano sul filo della lama e si accasciò a terra; Romanus rimise l’arma nella guaina e si inginocchiò accanto alla donna, prendendola per le spalle.
    Sentì solo una risata, poi la sua mano, calda, appiccicosa e viscosa a causa del sangue, imbrattargli il viso; egli si ritrasse con un moto d’orrore, pulendosi la guancia col pugno, mentre Elissa lo osservava con un sorriso di scherno sulle labbra ed un rivolo scarlatto che le scendeva lungo il polso.
    -Non dimenticare il sangue di Carthago, Romanus- soffiò, socchiudendo le palpebre –Perché sarà la causa della tua rovina-



    Agrigento, 261 a.C.




    Era come un’ombra, il riflesso di una vittoria promessa ed una sconfitta annunciata.
    Ne coglieva il luccicare delle collane, un baluginio d’oro liquido tra le rocce della città, un profilo nero tra le colonne, ma non appena estraeva il gladio dalla guaina ella era già sparita. Era come un phasma, uno spirito dal volto di vento che assediava Agrigento con la sua risata mefitica, coi suoi denti malati che mordevano senza tregua le truppe ormai logore di Roma.
    E allora lui gridava, colpendo il terreno con un pugno e scorgendo nel sangue che gli stillava dalle dita martoriate gli occhi vacui e straniti del suo popolo morente, trafitti dalle lance, dalla fame, dalle epidemie e dalle lame nemiche di Carthago e Annone.



    Si teneva la testa fra le mani, le dita smagrite, nodose, le unghie gialle, gli occhi cerchiati di nero.
    -Romanus!-
    Alzò la testa di scatto, lo sguardo smarrito, assente e folle.
    -Gerone! Gerone ha mandato i rifornimenti!-
    Nuova forza, nuovo fuoco che rinasce tra le braci della disperazione. Fiamme che crepitano rosse e oro sul filo del gladio di Roma.



    Eccola quell’ombra.
    I denti snudati come una belva, gli occhi un incendio di furia e odio, le nocche nodose e bianche talmente stretta era la presa sull’asta della lancia.
    La cavalleria di Roma si avventò con la forza di Nettuno Enosictono, col coraggio ed il valore di Marte, l’urlo di battaglia che risuonava tra i duri zoccoli delle cavalcature.
    Il pachiderma crollò sulle zampe, alzando la proboscide e lanciando un gemito d’agonia così straziante che i cavalli nitrirono in risposta, dondolando la testa e arretrando, mentre i cavalieri cercavano invano di controllarli.
    Ella era a terra, il volto coperto di sabbia e di sangue, le labbra spaccate, le dita artigliate al terreno, la lancia spezzata; lui le si avvicinò e la prese per i capelli, fissandola con disprezzo.
    -E’ la tua rovina, Carthago. Non quella di Roma-



    La notte era fresca, il peso della battaglia era stato portato via dalla risacca risonante; il sangue dei caduti aveva dipinto di rosso le onde del mare e si era mescolato prima che qualunque forza potesse intervenire a dividerlo: sangue romano, sangue cartaginese, che importanza aveva ormai? Quei rivoli vermigli erano scesi intrecciati alle dimore dell’Ade.
    Romanus si guardava le mani, le dita su cui ancora erano impressi, come a fuoco, i segni dove i capelli di Elissa erano affondati quando li aveva stretti nel furore della battaglia. Spiccavano rossi, sottili, sulla pelle resa bronzea dal sole di Sicilia. Flesse le dita, chiudendo più volte la mano a pugno.
    Sarebbero mai rimaste le cicatrici? Quei solchi bianchi che all’immagine di lei gemente sotto le sue dita, gli occhi chiusi nell’estasi e le labbra frementi, avrebbero sostituito le ferite e le piaghe della guerra, lo avrebbero accompagnato fino alla fine dei tempi?
    -Romanus!-
    Preso di sorpresa, questi scosse il capo e osservò confuso il soldato che gli stava davanti.
    -Cosa succede?-
    Il soldato prese fiato: aveva il viso pallido, tremava braccia e gambe e le labbra, livide, spezzavano e frantumavano le parole per la paura e la fretta.
    -Annibale di Giscone!- esclamò –E la guarnigione di Agrigento! Fuggiti! Dicono ci fosse una donna con lui!-



    Capo Ecnomo, 256 a.C.




    Mare, mare da ogni dove.
    Onde scroscianti che si abbattevano senza sosta contro i fianchi della nave, sciabordando in uno spumeggiare di creste candide.
    Romanus era a prua, ritto ad osservare la navigazione delle altri navi, disposte a cuneo accanto alla sua e a quella di Vulsone Longo; sentì un movimento dietro le spalle e quando si voltò si ritrovò a fissare gli occhi scuri di Attilio Regolo. Il console aveva le labbra secche, costellate di sale e le guance smagrite, ma lo sguardo era sicuro, deciso, di chi non aveva paura di mettere la propria vita al servizio del popolo che amava.
    Il sole lampeggiò bianco contro lo specchio del mare, innalzandosi come fiamma sulle onde: quando la luce si diradò, la linea della navi cartaginesi comparve all’orizzonte, nera, scure gocce di sangue rappreso sul filo della lama della vittoria.
    Attilio strinse la spalla di Romanus; quello annuì e portò la mano alla cintola, ad accarezzare il pomo del gladio.



    Tonfi, grida, urli, spuma, sangue, bagliori, morti, lame, sole, onde, graffi, legno, mare, cielo, sibili, ordini, gladi, imprecazioni, lance, gemiti, romani, cartaginesi, vittoria, sconfitta.
    La nave di Attilio Regolo si slanciò contro le creste delle onde, fendendo l’acqua con la prua affilata: Amilcare era fuggito e già Vulsone Longo tornava alla formazione romana, trascinando dietro di sé le imbarcazioni nemiche catturate.
    Romanus sentì nelle orecchie e nel cuore le urla di gioia dei soldati dell’ultima fila, vide le loro lame baluginare contro il cielo, rinfrancati e incoraggiati dall’avvicinarsi delle navi consolari.
    Le forze di Annone si ritrovarono strette tra due fuochi e Carthago, sopra l’imbarcazione maestra, ruggiva ordini, squadrando con timore i corvi delle navi romane, temendo l’idea di uno scontro ravvicinato,
    L’odio ribollì nauseante in Romanus, che sentì il fuoco divorargli la bocca dello stomaco: strinse le dita attorno all’elsa del gladio, scivolosa per il sangue cartaginese; ringhiò qualcosa, nemmeno lui sapeva con esattezza cosa, ma a voce così alta, potente, che Elissa si voltò a guardarlo con occhi sgranati.
    Il volto di lei si trasfigurò, mutando dalla sorpresa all’ira e le labbra livide si torsero, grottesche, vomitando altre urla, ordini, ingiurie, forse imprecazioni.



    Vittoria!
    Un solo urlo, un’unica voce dalla flotta romana.
    E gli occhi di Romanus che cercavano senza sosta lo sguardo di Carthago, allontanatosi tra i flutti.



    Adys, 256 a.C.




    La ragazzina urlava, dibattendosi nella stretta crudele di Romanus.
    Questi le colpì il viso con un pugno, facendola cadere a terra con un gemito, prima di sederle cavalcioni sulla vita e bloccarle le gambe con le proprie. Sfiorò il gladio con le dita, mentre la ragazzina scuoteva la testa, urlando e piangendo insieme, colpendogli il petto coi pugni, graffiandogli il viso, cercando con tutte le sue deboli forze di tenerlo lontano.
    Romanus le diede un altro pugno, sentendo le ossa scricchiolare sotto le dita, le nocche chiazzate di rosso; la ragazzina smise di dibattersi, abbandonando il capo sul terreno, chiudendo gli occhi grigi al suono delle urla e dei pianti delle altre donne che venivano aggiogate al potere romano unicamente attraverso la forza della violenza.
    Romanus si asciugò il sudore sulla fronte ed estrasse il gladio dalla guaina, avvicinandolo lentamente alla cinta candida che avvolgeva la vita della ragazzetta, facendo passare la lama sotto il tessuto e tirandola a sé, fino a quando non sentì il secco rumore di uno strappo e la veste afflosciarsi sulle gambe tremanti di lei.
    Con un guizzo, la ragazzina riaprì gli occhi e sputò sul viso di Romanus.
    Questi si ritrasse con una sonora imprecazione sulle labbra, afferrò la ragazzetta per i capelli e la sollevò con violenza, ignorandone le proteste, i gemiti e le lacrime; la portò fuori dalla casa e la lanciò a terra di malagrazia, per poi rivolgersi al soldato posto accanto all’entrata e che aveva osservato tutta la scena senza battere ciglio.
    -Porta questa meretrix alla nave!- ruggì Romanus, mentre la ragazzina cercava di rimettersi in piedi, coprendosi al contempo il seno e raggruppando la veste al’altezza della vita –Che diventi schiava di Roma, come è giusto che sia!-
    Il soldato annuì e con volto truce afferrò la ragazzetta per il braccio: ella guardò dapprima il milite, poi Romanus e infine cominciò a protestare, ad urlare, piegando le ginocchia e trascinandosi a terra, costringendo l’uomo ad uno sforzo immane per portarla via.
    Stanco di quel comportamento, Romanus si avvicinò a grandi passi alla ragazzina, si chinò verso di lei e le si accostò, sussurrandole all’orecchio
    -Inutile dibattersi, Adys. Ora sei proprietà di Roma. Ora sei proprietà mia-
    Adys trattenne il respiro, gli occhi improvvisamente vuoti, e il soldato ne approfittò per tirarla in piedi e portarla via.
    Romanus stava ancora fissando le due figure svanire tra le ombre del viottolo quando dei passi affrettati lo fecero voltare: Attilio Regolo, accompagnato da uno dei soldati di vedetta, correva lungo la stradicciola, il volto arrossato e la toga impolverata ai bordi.
    -Le truppe di Cartagine!- esclamò il console, indicando con un braccio le colline che si perdevano nella nebbia –Sono fuggite dalla città e si sono ammassate sul colle!-



    Era magra, la pelle cinerea tirata sugli zigomi e i polsi troppo grandi per quelle braccia così lunghe e secche.
    Carthago strinse la lancia fra le dita nodose, alzò la testa, gli occhi che roteavano folli tra le palpebre cadenti e cominciò ad annusare, le narici dilatate, palpitanti, come a cogliere tra il lezzo del sangue e il marcio della morte il profumo effimero, ma potente, estasiante, della vittoria.
    Romanus si ritrasse impercettibilmente, la mano che tremava e negli occhi gli occhi grandi di Adys, il suo volto di bambina distrutto dalla tentata violenza e dalla libertà in frantumi, il bel collo piegato dal giogo di Roma.
    Elissa trattenne il respiro con un ansimo, lo sguardo acceso dall’incredulità prima e dalla rabbia poi, le dita che torcevano il legno della lancia, le labbra aride sollevate sui denti sanguigni.
    -Come hai osato!- latrò –Come hai osato tu, maledetto dagli dei e dagli uomini, alzare la mano su Adys? Essere immondo, che gli dei che stanno sotto la terra brucino il tuo nome fra le fiamme infernali! Me la pagherai! Sì, Roma intera pagherà e cadrà nel fuoco della vendetta di Cartagine!-
    Si lanciò contro Romanus, che arretrò di un passo, spinto indietro dall’impeto dell’attacco: come ad un segnale convenuto, il sole bruciò l’orizzonte e le grida di voci romane si infransero contro lo strepito dei Cartaginesi e i barriti degli elefanti.



    Il sangue le colava dagli occhi e dal volto, lacrime scarlatte che lei non osava veramente versare. Romanus alzò il gladio, pronto a menare l’ultimo fendente, quando il nitrito di un cavallo e lo scalpiccio degli zoccoli non lo fecero voltare di scatto.
    Carthago usò quell’attimo di distrazione a suo vantaggio e si tirò in piedi, aggrappandosi alla criniera dell’animale e montando faticosamente in sella. Prima che Romanus potesse reagire in qualsiasi modo, ella non era più che un punto lontano fra la sabbia rossastra.
    Con un urlo, un ringhio che gli esplose nel petto con forza e disperazione inaudite, egli si gettò in ginocchio, affondando il gladio nel ventre della Terra.



    Tunisi, 255 a.C.




    Schiena contro schiena con i veliti, Romanus osservava con orrore le zampe tozze degli elefanti abbattersi e schiacciare senza pietà quelle misere truppe che ancora cercavano di resistere all’attacco cartaginese.
    Alzò lo sguardo, gli occhi velati di rosso, e la vide, ridente, i capelli neri che fluttuavano contro il cielo cobalto, simile alle furie dal volto magro e lo sguardo di fuoco.
    I legionari, i cuori divorati dal terrore, si diedero alla fuga: chi fu così fortunato da superare indenne le fila degli elefanti da guerra, trovò la via verso Aspide e non si voltò a guardare indietro. Nemmeno pochi passi, neppure il tempo di stringere fra le dita insanguinate l’illusione della salvezza, che i Cartaginesi si frapponevano fra loro e l’orizzonte, bloccando il passaggio e facendoli prigionieri.
    Prima di cadere a terra per il dolore che gli attanagliava e distruggeva il cuore, Romanus vide il console Attilio Regolo disarcionato da cavallo e le lunghe, nodose dita di Carthago che lo costringevano di nuovo in piedi, prima di soffermarsi con fare languido sulle sue palpebre tremanti.
    Fu solo il baluginio di un ghigno, la consapevolezza della sconfitta, il volto di Santippo dai tratti duri tipici dei guerrieri di Sparta, poi, il nulla.



    Capo Ermeo, 255 a.C.




    Romanus crollò in ginocchio sulla battigia, il respiro ansante, la voce che si era disfatta in grida ed urla: un lungo, intenso gemito di agonia che dalle bocche morenti dei suoi soldati fatti prigionieri gli si era aggrappato alla gola e da lì aveva iniziato la sua faticosa salita fino alle labbra e poi al cielo.
    Il suo grido di dolore aveva attraversato i mari, rombando muto sui cavalloni fino a Roma, dove era stato udito tra lo stupore generale. Roma, sconfitta? Come era potuto essere?
    In quel momento le navi cartaginesi bruciavano fra i flutti, cadaveri lividi galleggiavano sulle onde quiete e frammenti di legno trascinavano a riva naufraghi senza più respiro.
    Contro il cielo serale, due figure nere si frapposero tra il mare e Romanus; questi alzò il viso rigato di lacrime, incontrando gli sguardi di Marco Emilio Paolo e Fulvio Petino Nobiliore.
    Il secondo gli pose una mano sul capo, mentre il primo gli dava le spalle, osservando i resti della flotta cartaginese venire ingoiati dal mare.
    Ma per quanto Nobiliore sorridesse, Romanus non aveva ancora visto il volto di Carthago emergere pallido dalle acque.



    Lilibeo, 242 a.C.




    Romanus osservò Lutazio Catulo con attenzione: era arrivato in Sicilia al comando di duecento quinqueremi, nonostante non ci fossero più risorse nell’erario, nonostante le lotte interne dilaniassero Roma.
    Il console, sentendosi osservato, si voltò e osservò Romanus aggrottando la fronte gibbosa: la contrazione dei muscoli del viso non fecero che approfondire la lunga cicatrice che gli tagliava la guancia destra dalla palpebra fino al mento.
    -Roma non accorda forse la sua fiducia ad un homo novus?- chiese, strascicando le vocali.
    Romanus inarcò un sopracciglio.



    Egussa, Isole Egadi,
    9 Marzo 241 a.C.




    -Lo avverti?- domandò Catulo, osservando Romanus di sbieco –L’odore salmastro della vittoria-
    L’altro non rispose, osservando inquieto il mare che si agitava davanti a loro: non sentiva nulla se non la tensione crescente, i primi segni della battaglia imminente.
    Non sapeva se avrebbero vinto o se avrebbero perso.
    Sapeva solo che Annone li attendeva nelle tenebre della notte. E accanto a lui Carthago fissava il mare inquieto, interrogandosi anche lei su quale destino attendesse la sua flotta. E su quale sarebbe stato il primo volto che avrebbe visto non appena i suoi occhi si fossero abituati alla luce ruggente del mattino.



    Egussa, Isole Egadi,
    10 Marzo 241 a.C.




    Il vento da Occidente frustò il viso di Romanus, incrostato di salino, ma quell’aria feroce non era più un problema ormai.
    Veloci, come un solo muro, le navi si proiettarono in avanti, leggere, imprendibili, mentre la flotta di Cartagine arrancava sul mare, pesante e goffa.
    Catulo berciò qualcosa e Romanus latrò in risposta, segnalando ad ampi gesti che gli avversari avevano ammainato le vele, quei folli! Credevano davvero di poter affondare la flotta di Roma?
    Si abbatterono sul nemico con uno scrosciare di onde, cinquanta navi di Elissa si inabissarono con un gemito crocchiante delle assi, mentre i loro occupanti si sbracciavano tra le creste bianche, agitando le braccia e gridando, ma ricevendo come un’unica grazie il poter morire all’istante, senza essere divorati dalle grande bestie che abitavano il mare.
    Romanus alzò alto il gladio, facendolo lampeggiare alla luce della vittoria: sul piatto della lama, il riflesso ondeggiante di settanta navi prigioniere, con l’equipaggio che, mesto, già chinava al collo alla potenza romana, si frantumò negli occhi socchiusi e freddi di Carthago.
    Le vele cartaginesi palpitarono di bianco e il vento prese a soffiare con più forza di prima: le navi nemiche, di quelle che si erano salvate, presero la via della fuga.
    A nulla valse lo sguardo Romanus che in silenzio urlava ad Elissa di tornare indietro.



    [Secundum Punicum Bellum, 219 – 202 a.C.]




    Cissa, 218 a.C.




    -Rinata, dunque- Romanus la guardò con disprezzo, ma senza osare portare la mano alla cintola.
    Carthago ricambiò lo sguardo, alzando il mento e poggiandosi sulla lunga asta della lancia:
    -Riponi troppa fiducia nelle tue forze, Romanus. Cartagine non si lascerà prendere così facilmente-
    -Credi ciò che vuoi, Elissa, ma la tua città è destinata a cadere-
    -E per quale mano?- ella rise, spaziando col braccio dal cielo alla pianura sottostante, dove le truppe di Scipione Calvo e Annone avanzavano nel calore del sole spagnolo, facendo rilucere le armi e le briglie insanguinate dei cavalli.
    Romanus sfiorò con le dita il pomo del gladio; a quel gesto lo sguardo di Carthago si indurì, fino a diventare freddo e tagliente quanto la punta della sua lancia.
    -Il tempo dei tratti è finito, dunque?- gli chiese, passandosi la punta della lingua sulle labbra –Finite le carezze, i gemiti e i sospiri?-
    -Tu lo hai voluto- ribadì l’altro, estraendo con un sibilo il gladio dalla guaina –Non hai accettato la libertà di Roma-
    -Vorrai dire- lo contraddisse Carthago –Che non ho accettato la sua schiavitù-
    Un lampeggiare ed uno stridere di armi.
    La battaglia era cominciata.
    Il sangue era pronto a scorrere.



    Victimulae (Presso il Ticino),
    218 a.C.




    Doveva essere una semplice esplorazione, ma non appena Romanus aveva visto gli occhi di Cornelio Scipione farsi improvvisamente cupi, aveva capito che Carthago lo stava aspettando oltre le colline.
    Maarbale, a capo della divisione di cavalleria numidica, aveva stretto tra le ciglia scure ogni fante e cavaliere che facesse parte dell’esercito di Roma, prima di soffermarsi su Romanus.
    Era uno sguardo che quest’ultimo non avrebbe mai dimenticato.
    Non avrebbe mai dimenticato nemmeno quel giorno, i nitriti furibondi della cavalleria cartaginese, gli zoccoli duri che si schiantavano sulle teste e sui volti dei soldati romani, le lance e le spade, e il sangue, e Cornelio Scipione che ferito cadeva dal suo cavallo e il figlio che si gettava ai suoi piedi, era così giovane rispetto a tutti gli altri, col volto sottile e gli occhi vecchi, le mani piagate dal pomo della spada che si chiudevano sulle spalle del padre, e Carthago che balzava furibonda in mezzo a loro, alzando la lancia, e lui, Romanus, che le impediva di uccidere frapponendo fra i due e l’arma la lama scheggiata del gladio.
    Non avrebbe mai dimenticato l’espressione di gioia crudele di Elissa mentre la lancia gli penetrava nel fianco e dalle proprie labbra rotolavano via grumi di sangue e saliva, col gladio che tintinnava, inutile a terra, il terreno duro sotto le ginocchia ferite e quel bruciore, il dolore soffocante della sconfitta che sbocciava con petali di fuoco in ogni parte del corpo, a memoria di ogni soldato caduto sotto l’assalto cartaginese.



    Trebbia,
    18 Dicembre 218 a.C.




    Tradito dai Galli a Piacenza, Romanus sentì la sconfitta piegargli le spalle con violenza ancora maggiore: si trascinava per il campo fortificato lanciando occhiate sofferenti ai soldati disperati che lo occupavano, affiancando senza parlare il diciassettenne figlio di Cornelio Scipione nelle veglie in cui il padre delirava per le ferite e la disgrazia della sconfitta, saliva sul punto più alto del colle in attesa di veder arrivare gli aiuti di Sempronio Longo.
    Quando poi le truppe di questi erano arrivate, aveva sentito un barlume di speranza farsi strada nella disperazione, ma quella fiammella venne ben presto soffocata dalla notizia che Clastidium era stata presa e le forze nemiche avevano avuto così la possibilità di ricevere nuovi rifornimenti.
    Ma c’erano state le vittorie di Sempronio, le sue truppe fresche che nemmeno l’inverno sembrava poter fermare. Pareva quasi che la vittoria fosse tornata da loro, scendendo con ali invisibili sul campo imbiancato di neve.
    Nevicò anche quella maledetta mattina, quando i Numidi arrivarono alle loro porte, inneggiando alla battaglia; Romanus non attese un istante di più e balzò in sella, al fianco di Sempronio, gettando il cavallo al galoppo attraverso quei fiocchi che gelavano il sangue, ma non lo spirito.
    Si tuffarono nel fiume e le onde, fredde come lame, gli ghiacciarono le membra, intorpidendo i sensi: i cavalli nitrirono, agitandosi nell’acqua, i soldati che a stento si trattenevano dal battere i denti. D’improvviso la neve parve farsi più forte e crudele e il volto della vittoria si trasfigurò in quello ghignante di Carthago che si lanciava verso l’esercito di Roma con gli elefanti e i fanti e lancieri. Magone piombò all’improvviso su di loro, prendendoli alle spalle, e le truppe di Romanus vennero sterminate, passate a fil di spada senza alcuna pietà.
    A costo di grande fatica, l’esercito di Roma, o quel che ne rimaneva, riuscì a mantenersi compatto e si trascinò via, verso Piacenza, verso quel fiume gelido che non aspettava che altri corpi per dissetarsi.
    Rimase indietro solo Romanus, portato via praticamente privo di sensi, la testa ciondolante sul petto insanguinato e dietro le palpebre il sorriso sghembo e scarlatto della bella e terribile Elissa.



    Fiume Ebro,
    Primavera del 217 a.C.




    Quella mattina, Scipione Calvo gli aveva messo una mano sulla spalla, scuotendola, come a dargli coraggio.
    -Questa volta, Romanus, la vittoria ci apparterà-
    Al termine della battaglia, Romanus alzò le braccia al cielo, mentre il sole fiammeggiava sull’estuario. Consacrò la vittoria a Marte, si inginocchiò sul ponte della Nave, ridendo come mai aveva riso.
    Il volto di Elissa, sbiancato per l’attacco a sorpresa, era quanto di più bello potesse chiedere dopo la disfatta di Trebbia.
    La vittoria sorvolò la nave su ali di gabbiano.



    Tuoro, presso il Trasimeno
    24 Giugno 217 a.C.




    La nebbia, dapprima perlacea, bianca, si era tinta di rosso.
    Romanus barcollò, cadde bocconi, non si rialzò più. Non ce la faceva. Era stanco. Era stato un massacro.
    Nemici, nemici da ogni dove nascosti dalle nebbie. Troppi, troppi morti. Volti agonizzanti, sangue che scorreva. Lame spezzate, gli occhi orripilati di Flaminio. Le teste mozze dei fanti, il nitrito agonizzante dei cavalli.
    Non si rialzò. Che lo vedessero, che lo vedessero tutti.
    Era stanco.
    Voleva il silenzio. Voleva l’oblio.
    Ma la risata di Carthago e il volto di Annibale parvero volergli negare anche quell’ultimo desiderio.



    Canne,
    2 Agosto 216 a.C.




    Romanus era a terra, gli occhi vacui fissi al cielo plumbeo: sentiva il sapore metallico del sangue riempirgli la bocca e il respiro bloccarsi nel torace, così orribilmente ferito e mutilato. Non sentiva più nulla, se non il silenzio frusciante del vento sull’erba scarlatta.
    Era così assordante il silenzio..
    Non aveva compagni nella sua disperazione, tutto era immobile nella morte.
    Oh, come era stato così imprudente Varrone! Perché, perché non aveva ascoltato la voce di Lucio Emilio Paolo, con le sue erre cadenti e la fronte piana? Ora non aveva più voce, Emilio Paolo, tanto erano straziate le sue labbra e la sua gola.
    Ma Giove, Giove, così libero sembrava il loro accampamento! Vuoto, silenzioso, ma un silenzio falso che copriva lo sfregare delle lance contro l’etere e i passi chiodati dei soldati sul terreno molle.
    Romanus aprì la bocca per prendere almeno un soffio, quel tanto che bastava perché gli artigli frementi dell’Ade non lo prendessero per le spalle e lo trascinassero nel buio della terra.
    Era la fine di Roma, quella? Era il sandalo dorato di Carthago che gli schiacciava le costole? La punta della sua lancia conficcata nel petto? Le sue labbra ardenti che gli succhiavano il sangue direttamente dalla ferita che ella gli aveva aperto all’altezza del cuore?
    Aveva bevuto fino a quando non era stata sazia, aveva succhiato ogni singola goccia purpurea, aperto con la lingua ruvida ogni tessuto, ogni muscolo che ancora cercava di resistere al disfacimento e poi aveva succhiato ancora, e ancora, ancora! Come una puttana nei lupanari di Roma!
    Bruciavano ancora quelle labbra, quel succhiare e lappare tremendo, quell’infierire senza tregua nella disgrazia della sconfitta.
    Il respiro si infranse contro le costole spezzate ed un fiotto di sangue gli sgorgò dalle labbra.
    Era così assordante il silenzio..



    Nola, 214 a.C.




    -Non avrai Nola!- gridò Romanus –Finché ancora Roma resterà salda sulle sue fondamenta, Nola non cadrà!-
    Carthago rise.



    Metauro, 207 a.C.




    Non esisteva pietà, pietà alcuna.
    Troppi anni erano passati, per troppo tempo era rimasto tremante all’ombra di Canne, troppo spesso aveva portato la mano a quella profonda ferita al cuore, al segno scarlatto delle labbra di Carthago.
    Romanus prese per i capelli la testa di Asdrubale e l’alzò in aria, in modo che tutto l’esercito potesse vederla e gioirne, mentre gli Spagnoli e i Liguri catturati fissavano con sgomento il gocciolio del sangue dal collo mozzato.
    Il console Nerone alzò le braccia.
    -Che Annibale sappia!- gridò, prendendo la testa di Asdrubale dalle mani di Romanus –Che Annibale sappia il destino di suo fratello!-
    -Che Carthago!- concluse Romanus –Si disperi alla sua vista!-



    Zama, 202 a.C.




    Romanus raccolse da terra il corpo smagrito di Carthago: ella era caduta sotto i suoi colpi, sotto il lampeggiare del gladio, sicura, certa della vittoria.
    Ma Elissa aveva perso e in quel momento giaceva fra le braccia del suo nemico, ma senza incontrarne lo sguardo.
    -Sconfitta!- ansimò, col sangue che le macchiava le labbra esangui –Ahimè, Annibale!- gridò, roteando gli occhi folli –Annibale, dove fuggi? Tua madre, tua sorella, la tua sposa ti chiama! Annibale!-
    -Annibale è fuggito- mormorò Romanus –Le tue forze sono state schiacciate. Il tuo potere è finito, Carthago. Rinuncia alle armi!- la pregò –Rinuncia e accetta Roma! Avrai salva la vita!-
    A quelle parole, Elissa, così fragile ed esile, strabuzzò gli occhi, torse le labbra ed urlò, un grido acuto, un gemito straziante a metà tra l’orrore e la derisione. Con le mani scheletriche spinse via Romanus, si allontanò gattonando, si alzò e barcollò, ricadendo a terra e rialzandosi di nuovo. Si voltò di scatto e alzò un dito lungo e nodoso verso Romanus.
    -Mai!- boccheggiò, la veste intrisa di sangue, i capelli orribilmente ritti sul capo ferito, il volto incavato, lo sguardo folle –Mai Carthago sarà schiava!-
    Un’ultima risata e si accasciò a terra.
    Non si rialzò.



    [Tertium Bellum Punicum, 149 – 146 a.C.]




    Cartagine, 146 a.C.




    -Ma Cartagine deve essere distrutta!- strepitava Porcio Catone, puntando col dito raggrinzito i presenti al Senato, schioccando le labbra violacee e umide di saliva rappresa, roteando gli occhietti incastonati come spine ai lati del naso aguzzo, i capelli afflosciati dietro l’incipiente calvizie.
    Lo aveva ripetuto fino a quando la morte non se l’era portato via. Ma tutti, a Roma, era convinti che il Dio che sta sotto la terra si sarebbe presto pentito della scelta di portare il Censore presso di sé: per tutta l’eternità le sue dimore nell’Ade sarebbero risuonate di quella vocetta stridula.
    Ma Cartagine deve essere distrutta.
    Che rimaneva, in quel momento, di Cartagine?
    Cenere.
    Cenere nera, sparsa sui resti dei colori vivi e pulsanti che tanto avevano colpito Romanus secoli prima.
    Non restava più nulla di quell’antico splendore se non la figura eterea che davanti a lui camminava lenta in direzione dell’incendio non ancora estinto.
    Era avvolta in una veste bianca, coi capelli neri che le scendevano in ricci luminosi fino alla schiena; portava dei braccialetti tintinnanti al polso destro, una catenina di turchese alla caviglia sinistra e le dita lunghe, sottili, erano adorne di anelli. La vita era cinta d’argento e pietre preziose, che la rendevano ancora più esile e bella. Bella e lontana.
    Romanus rimase immobile, in ginocchio a terra, incapace di muoversi. Oh, quanto avrebbe desiderato alzarsi e correre, stringere quella figura fra le braccia e tenerla accanto al suo petto fino a quando le stesse fiamme che stavano divorando Cartagine non si sarebbe nutrite anche del mondo!
    Ma la figura eterea, come una dea scesa a passi lucenti dall’Olimpo, continuava a camminare verso l’oblio.
    Ancora un passo, un passo di quel piccolo piede impreziosito da sandali d’oro..
    Romanus chiuse gli occhi, ma da dietro le palpebre vide lo stesso la figura venire stretta dall’abbraccio dell’incendio, il suo corpo accartocciarsi, nero, rimpicciolire e svanire nel fuoco con crepitare di urla soffocate dalla cenere.
    Il vento cadde e l’aria si fece pesante.
    Romanus riaprì gli occhi.
    Davanti a sé, solo cenere, solo un corpo smagrito, forse di donna, che il mare portò via con un singulto di onde.
    Come ubriaco, ebbro e stralunato da tanta morte e distruzione, Romanus si alzò e si avvicinò a Scipione l’Emiliano, che, in ginocchio, contemplava la nera Cartagine con sguardo vacuo.
    -Che cosa vedi- chiese Scipione, non appena Romanus gli fu accanto, anche lui in ginocchio –Nelle ceneri della bella Cartagine?-
    -Le ceneri della grande Roma-
    Piansero.



    [Liber III, Bellum]
     
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